Da Trieste alle cime del Caucaso in bicicletta e in solitaria: il racconto fotografico di un viaggio tra l'esotico e il familiare
Un racconto fotografico di un viaggio di migliaia di chilometri, percorsi in bicicletta e in solitaria, partendo da Trieste e arrivando in Georgia, procedendo verso Svaneti, una regione nel cuore del Grande Caucaso
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
E’ un pomeriggio di fine Agosto, mi trovo in Georgia, soffocato dal caldo umido della pianura che si affaccia sul Mar Nero, e nonostante sia mattina, mi sento debole e stanco. Circondato da vecchi edifici industriali sovietici, copro gli ultimi chilometri che mi separano dal fiume Enguri, che nei prossimi giorni dovrò risalire per raggiungere Svaneti, una regione nel cuore del Grande Caucaso.
Negli ultimi giorni ho avuto difficoltà a trovare la motivazione per pedalare. Avrei dovuto condividere questa parte di viaggio con degli amici conosciuti lungo la strada, in Turchia, ma dell’acqua o del cibo contaminato mi ha fatto ammalare e costretto a fermarmi. I miei compagni di viaggio hanno aspettato finché potevano, poi hanno dovuto continuare. Ora ho ritrovato le forze ma sento di aver perso la curiosità che mi ha spinto a partire. Guardando i paesaggi estranei intorno a me provo sconforto invece che eccitazione. Vorrei essere in un luogo familiare, prevedibile.
Scaccio questi pensieri prima che diventino insopportabili. Sono in Georgia, a migliaia di chilometri da casa ed il mio viaggio di rientro dovrà aspettare alcune settimane. Meglio tenere duro. Presto mi riprenderò da questa sensazione di sconforto, mi dico.
Dopo una pausa in riva al fiume Enguri, comincio a guadagnare i primi metri di dislivello verso Svaneti. Intorno a me, si estendono pendii disabitati, ricoperti da fitti boschi di conifere e latifoglie.
D’altra parte, se mi svegliassi qui dopo un’amnesia, potrei benissimo confondere questa valle con una valle alpina a pochi chilometri da casa. Gli indizi che mi aiuterebbero a ricostruire la realtà sarebbero l’assenza di terrazzamenti dismessi sotto le fronde degli alberi, i cartelli in alfabeto 'mkhedruli' e la quasi totale mancanza di infrastrutture sui pendii delle montagne. Il paesaggio intorno a me è più selvaggio rispetto a quello alpino, dove la presenza umana ha lasciato tracce più visibili.
Un fuoristrada sgangherato che risale velocemente la valle quasi mi sfiora facendomi trasalire. In questa regione della Georgia, le strade non sono un luogo sicuro. Per la maggior parte hanno fondo sterrato e sono popolate da vecchi veicoli che odorano di gasolio e, a velocità inaspettate, sollevano grandi nuvole di polvere. Ogni tanto vedo un minibus superarmi, con a bordo dei georgiani e qualche avventuriero europeo, che riconosco per il grande zaino da trekking che tiene in braccio. Questi minibus sono i ‘marshrutka’, furgoni Mitsubishi Delica a dodici posti che raggiungono le destinazioni più remote della Georgia. Rimangono parcheggiati nelle città, in delle stazioni dedicate, e quando raccolgono un numero sufficiente di passeggeri partono per raggiungere tutti gli angoli del paese.
Lungo la strada mi fanno compagnia gli animali. Non animali selvatici, ma animali domestici: vacche e maiali. La strada ne è piena e tengono pulito dalle erbacce. Mi chiedo come facciano a non esserci incidenti. Sia animali che autisti devono aver sviluppato un sesto senso per evitare collisioni dietro le curve o nei tunnel.
Due giorni dopo arrivo a Mestia, la mia prima destinazione, dove ho intenzione di fermarmi a riposare. Nel frattempo ho conosciuto una coppia di francesi lungo la strada, Marylene e Roland, con cui ho condiviso la notte di bivacco. Insieme, all’ora di pranzo, ci sistemiamo in un campeggio, dove incontriamo altri ciclisti e camminatori arrivati a bordo dei marshrutka. Il proprietario del campeggio è gentile, ed essendo domenica ci invita ad unirci a lui e suo fratello a bere vino rosso e mangiare khachapuri, una sorta di focaccia al formaggio locale. Scambiamo qualche parola in inglese e quando non riusciamo a trovare le parole usiamo google translate. Un bambino georgiano prova a insegnarmi qualche parola, ma sono una frana e non riesco ad azzeccare la pronuncia.
La gente del posto è accogliente, ma un’ombra di malinconia copre il volto di alcuni. Da qualche anno questi luoghi si stanno popolando di ‘turisti outdoor’ arrivati dall’occidente, portatori di soldi e benessere. Da una regione di pastorizia, in cui il fieno viene ancora preparato a mano, Svaneti sta diventando una meta turistica. I terreni vengono convertiti in campeggi ed i fienili in ‘guest house’. La vita a Svaneti però non è sempre stata così: fino a pochi anni fa, la regione è stata coinvolta in un conflitto con la vicina Russia per il controllo delle terre di confine. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Georgia ha combattuto per la sua indipendenza, provando ad avvicinarsi ai paesi dell’Unione Europea. Probabilmente le persone con cui condivido il vino hanno perso alcuni dei loro fratelli, amici o parenti nel conflitto.
In questi primi giorni ho sviluppato il desiderio di avventurarmi tra i sentieri del Caucaso da solo, per mettermi alla prova proprio come avrei fatto tra le mie Alpi. Per questo, dopo la pausa a Mestia, decido di intraprendere una strada diversa da quella programmata inizialmente. Qualcosa deve essere cambiato dentro di me, perché pochi giorni fa non avrei esitato ad unirmi ad altri viaggiatori conosciuti per strada. Parto la mattina presto ed un piccola cagna randagia si unisce a me, facendomi compagnia lungo la salita. Insieme, raggiungiamo un punto panoramico da cui è possibile vedere Mestia e Ushba, la montagna che domina la cittadina. Nel pomeriggio sono costretto a scendere dalla bicicletta e portarla a mano lungo un percorso dissestato. Lo sforzo viene ripagato da una discesa divertente, che segue un sentiero sinuoso nel bosco. In serata risalgo il pendio che ospita gli impianti sciistici di Mestia, il Tetnuldi ski resort, una infrastruttura recente. Raggiunta la cima degli impianti, piego verso un’altra valle e scelgo una radura in cui passare la notte.
Quella notte accendo un piccolo fuoco e guardo le stelle. Sono tantissime, forse non ne ho mai viste così tante. C’è un silenzio assoluto, rotto solamente dagli animali del bosco. Penso che i miei compagni di avventure in Italia sarebbero molto gelosi dell’esperienza che sto vivendo, se potessero vedere dove sono. Aspetto che la legna si consumi e quando il freddo diventa insopportabile mi rifugio nella tenda.
Il giorno dopo, percorrendo la strada verso Ushguli, il cuore di Svaneti, incontro un gruppo di uomini intenti a preparare il fieno. La scena mi sembra piuttosto caratteristica e chiedo ad uno di loro se posso scattargli la foto. Con mia sorpresa, tramite un gesto l’uomo mi chiede di aspettare e raggiunge l’altro lato della strada, dove noto un bambino.
Lo stringe fra le braccia e mi fa cenno di scattare. Il bambino è certamente suo figlio, ed indossa un berretto di Spiderman ed una tuta rossa. La fotografia non è granché, perché il soggetto è in controluce e lo sfondo non è particolarmente interessante. Il ritratto però è emblematico: un padre che fino a poco prima era impegnato a fare il fieno a mano ed un bambino che veste i segni del recente arrivo del mondo occidentale fra le vette del grande Caucaso.
Non è il solo incontro della giornata. Più tardi, entrando in un negozio sento di essere osservato. Dalla fessura della porta del magazzino un ragazzino mi scruta. Deve essere incuriosito dal mio abbigliamento da ciclista, dal mio caschetto verde - che qui la gente non indossa neanche in moto - e dal mio strano modo di parlare. Allo stesso tempo sembra intimorito al pensiero di parlarmi. Gli faccio un sorriso e rubo un’altra fotografia. Il bambino chiude la porta ed arriva sua madre da cui acquisto un khachapuri pronto a rimettermi sulla strada.
Ushguli è un gruppo di quattro villaggi che si trova a più di duemila metri di quota. Lo raggiungo quando è ormai sera. Il gruppo di paesi è molto isolato, tanto che d'inverno la gente non può muoversi: o rimane all'interno del vallone di Ushguli, oppure al di fuori, perché i passi sono bloccati dalla neve. L'isolamento ha reso l'architettura e le tradizioni del luogo uniche ed atipiche; ad esempio, la religione più diffusa è il cristianesimo ortodosso, ma nel tempo si sono diffuse delle usanze diverse, mistiche, come il dialogo con i morti tramite l’uso della chacha, la grappa locale.
Arrivando in quel luogo remoto, scopro che l’arrivo dei turisti occidentali non ha intaccato il suo fascino. Le strade sono polverose, ed i bambini giocano per strada. Intorno al paese gli uomini fanno il fieno a mano. Nei prati riposano le vacche, e nei recinti vedo numerosi cavalli. La quiete viene periodicamente interrotta dal rombo del motore di un fuoristrada. Dietro ai villaggi compare Shkara, una delle vette più alte del Caucaso. La montagna maestosa guarda impassibile Ushguli. E’ una montagna piuttosto difficile da scalare: sia per la difficoltà tecnica che per l'isolamento. Il lato nord è in Russia, in un territorio disabitato, ed il lato sud è in Georgia. La montagna è al confine di due paesi che sono stati a lungo in guerra ed è stata e rimarrà una terra di nessuno.
Mi dirigo verso il confine di Ushguli che si affaccia verso Shkara e monto la mia tenda in un prato. Prima di andare a dormire, decido di esplorare a piedi i dintorni e vedo alcuni abitanti del villaggio affacciarsi sul vallone, forse in cerca di solitudine. Un uomo guarda verso la montagna ed i pascoli della valle, come se trovasse conforto in quel silenzio ed in quel paesaggio apparentemente immutabile. Scambio alcune parole con lui provando a chiedergli del suo lavoro. E’ di poche parole, ma mi chiede di fargli un ritratto. Scatto la fotografia e gliela mostro. Sembra soddisfatto. Non dice altro e torna verso il paese.
L’indomani percorro la lunga discesa che mi porterà a Kutaisi, in pianura. Il mio viaggio nel Caucaso è terminato, ed avrei voluto che durasse di più. Scendendo veloce lungo la strada sterrata ripenso alla prima salita. Sono partito cercando conforto in un paesaggio familiare, che mi facesse sentire a casa, ed ho raggiunto la meta compiaciuto di trovare un luogo autenticamente diverso da ciò a cui sono abituato. Mi chiedo se Ushguli manterrà il suo fascino esotico ancora a lungo, o se il passare del tempo ed il passaggio di altri Europei come me un giorno renderà Svaneti simile alle nostre Alpi. Ripenso a quell’uomo di poche parole, al bambino vestito da Spiderman ed al piccolo che mi spiava dalla fessura della porta. Cosa sarà meglio per loro?