Nel lager disegnava di nascosto rischiando l'impiccagione. Zoran Music: "Non potevo fare a meno di schizzare immagini di morte. Poi nascondevo i fogli sotto alla camicia"
Sentì la necessità di trasformare la sua esperienza in monito, per un mondo che già allora tornava ad acuire ancor più pericolose tensioni. "State attenti", ci dicono le sue tele, "non siamo gli ultimi". In occasione dell'anniversario della nascita (12 febbraio 1909) ricordiamo l'artista Zoran Music
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Dopo aver riconosciuto Jean Clair in una delle sale del Centro Espositivo Sloveno, al civico 3073 di calle Malipiero, ho pensato che doveva essere arrivato in vaporetto non molto tempo prima di me: anch’egli sceso a San Samuele, la fermata di Palazzo Grassi. Un’ipotesi la mia: entrambi avevamo gli abiti e i capelli inumiditi da una pioggia sottile e fastidiosa; obliqua ad ogni folata di vento. Era il 25 maggio del 2006.
Vi ero andato perché, a un anno esatto dalla morte di Zoran Music, una mostra di piccoli quadri ne ricordava la figura. Opere quasi tutte inedite, molte di queste su carta. Mancavano le prove più significative, tuttavia la ricorrenza, Venezia, il luogo espositivo e il curatore conferivano all’iniziativa un particolare impatto emotivo.
Critico d’arte tra i più autorevoli e qualificati, voce limpida e spesso fuori dal coro, Jean Clair è stato, dal 1990 al 2005, direttore del Musée Picasso di Parigi. Sempre lui, inoltre, ha firmato un’edizione indimenticabile della Biennale di Venezia, nell’anno del centenario. Una meritata fortuna per Music, dunque, averlo avuto per molti anni vicino, come attento osservatore del suo lavoro.
Il sodalizio artistico tra Jean Clair e Zoran Music era strettissimo: fu accanto a Francesco Valcanover nel 1980, nella mostra alle Gallerie dell’Accademia e poi presente nelle grandi rassegne del Centre Pompidou (1988) e del Grand Palais (1995) a Parigi; di Villa Medici a Roma (1992), e in molte altre occasioni, sino all’ultima antologica a Gorizia, nel 2004, curata da Marco Goldin.
Quel giorno, senza aver concordato l’incontro, ne approfittai per rivolgere a Jean Clair alcune domande, in parte poi pubblicate sul Giornale di Vicenza.
Per prima cosa gli ho chiesto come aveva conosciuto Music: "In realtà, prima di incontrare lui, nel 1972, in occasione di una sua esposizione a Basilea, una decina d’anni prima conobbi il pittore Guido Cadorin, di cui Music nel ’49 aveva sposato la figlia Ida. Inoltre, prima che con Music, ebbi rapporti professionali anche con il figlio di Guido, Paolo Cadorin, eccellente restauratore".
Orientato da alcuni testi di Roberto Tassi, nei quali, con sensibilità e sottigliezza critica, egli accostava l’uomo alla sua arte, gli ho domandato se con un ricordo poteva tratteggiarne il carattere: "Music era una persona molto gentile, ma di pochissime parole. Rimase celebre quanto capitò durante una sua intervista alla televisione francese: tra la domanda posta dal giornalista e la sua risposta egli fece trascorrere sessanta secondi di totale silenzio. Un tempo enorme, impensabile per i ritmi televisivi. Difficile descrivere l’agitazione che si formò in studio".
Era la conferma che cercavo. Nelle sue opere è sempre presente l’eco del silenzio, poiché, come ha sottolineato Clair "l’esperienza di Dachau ha formato un punto di convergenza tra arte e biografia".
Un punto di convergenza doloroso e fortificante: "Questa grande lezione", scriverà in anni successivi lo stesso Music. Non si allontaneranno mai più, infatti, quelle immagini catturate e disegnate in presa diretta dalla finestra della baracca dell’infermeria, con gli ammassi dei cadaveri che anticipano i profili delle "Colline senesi" dipinte tra il 1949 e il ‘51. Lo dice: "Quale fragile eleganza in quei fragili corpi. Dei dettagli così precisi, quelle mani, quelle dita sottili, i piedi, le bocche semiaperte nell’estremo tentativo di respirare ancora un po’ d’aria".
La "fragile eleganza di quelle mani", di "quelle dita sottili", sembra impossibile, eppure guardare ciò che non avrebbe voluto vedere attraverso l’arte, lo ha salvato.
Nato centosedici anni fa, il 12 febbraio 1909, nel 1944, quando fu arrestato con l’accusa di collaborazionismo, Music aveva trentacinque anni. Ho chiesto a Jean Claire se lo stato della sua pittura fosse cambiato con Dachau: "Non saprei. Potrebbe anche non essere così se pensiamo alla sua formazione. Anche all’interno dell’Accademia, dove era abitudine studiare anatomia sezionando cadaveri, aveva sviluppato una sorta di 'sensibilizzazione' estetica nei confronti della morte. Pensiamo anche ai suoi luoghi di origine: alle asprezze del paesaggio carsico, così simile al suo carattere".
Dal 1930 al ’35 egli frequenta l’Accademia di Zagabria. Subito dopo parte per un lungo soggiorno a Madrid: da Velàzquez assorbe una sapienza compositiva e cromatica che mai gli verrà meno; da El Greco la possibilità di allungare i corpi come solo l’ombra riesce a fare; dalla "maniera scura" di Goya la possibilità di indagare le segrete turbolenze dell’animo umano. Incontri decisivi: "Certo" conferma Jean Clair: "In particolare il Goya più penetrante e notturno lo ritroviamo quando inserisce la figura all’interno della composizione. Vi sono inoltre suggestioni che arrivano dall’Espressionismo di Kokoschka. Per averne conferma basta guardare come entrambi dipingono le mani: con le dita che allungandosi si incurvano e si intrecciano a formare una sorta di ponte".
Nell’ultima stagione, quando la vista gradualmente verrà meno, costringendolo a dialogare ancor più con se stesso, questo lo si nota ancora meglio: "Infatti" aggiunge "vi è una progressiva ricerca di assoluto. Egli è celebre per la lunga serie dei Cavallini dalmati, preziosi per il loro valore poetico, però, a mio giudizio, sono i Ritratti, specie quelli dell’ultimo periodo, i suoi quadri migliori: misteriosi e affascinanti".
Senza preavviso, abbiamo considerato con quanta distrazione il mercato internazionale guarda all’arte del Novecento italiano. "Il Fascismo, in questo caso non c’entra" ha detto subito, aggiungendo: "Un problema inesistente, sollevato dalla critica e dalla stampa. Margherita Sarfatti, a differenza di quanto è accaduto in Germania, ha dato impulso e vitalità all’arte italiana. Non a caso, nella rassegna intitolata 'Les Realismes', allestita al Centre Pompidou nel 1981, l’Italia aveva rappresentato il cardine assoluto di quell’esposizione".
Non chiedo a Jean Clair se il Fascismo può essersi rivelato per alcuni artisti una sorta di fertilizzante espressivo. Non è proprio il momento. Tra l’altro, quanto è passato? Anche a questo non è facile dare una risposta. Il tempo non può avere una misura. Siamo noi che per comodità lo misuriamo in continuazione, per trovarci, per porre una scadenza, per stabilire una data d’ingresso. Il 1945, ad esempio, quand’è stato? Ottant’anni fa o l’altro ieri? I testimoni diretti oggi sono pochi, ma se così tante persone tra quelle che incrociamo per strada conservano la memoria di quel periodo grazie ai racconti dei genitori, significa che è meno lontano di quanto crediamo sia. Non lontane le crudeltà della guerra, la feroce arroganza del Ventennio, le atrocità del Nazismo hitleriano, le disumane malvagità operate nei lager.
Quando il campo di Dachau, definito la porta dell’Inferno, con la liberazione cessa di esistere, come in ogni altro luogo si contano i morti: solo qui furono settantamila. Qualcuno è sopravvissuto, tra questi, come detto, Zoran Music. Aggrappato alla sua arte è riuscito addirittura a portare a casa una trentina di disegni (dei circa duecento realizzati): "Mi sono messo a disegnare di nascosto, specie durante le due settimane in cui venni ricoverato all’ospedale del campo, dove le SS non penetravano. Eravamo coricati su lettini sovrapposti, e ogni mattina vedevo i cadaveri che si accumulavano intorno a me, uno a destra, uno a sinistra, due sopra, due sotto… Non potevo fare a meno di schizzare queste immagini di morte. Poi nascondevo i fogli sotto alla camicia". Eppure, disegnando sapeva quel che rischiava, il regolamento parlava chiaro: chiunque tentasse di "fornire alla propaganda nemica descrizioni di atrocità…" sarebbe stato immediatamente impiccato.
Rientrato dalla prigionia, Music mostrerà di voler riannodare il filo là dove si era spezzato. La sua terra, i luoghi che lo videro studente in Accademia: "Mi vedo in questo paesaggio come in uno specchio". In parte rivisti, in parte filtrati attraverso la memoria: riappariranno la Dalmazia, il profilo roccioso del Carso, i "Traghetti" carichi di buoi, qualche figura femminile, gli iconici "Cavallini". Ripetuti con qualche variante, uno dopo l’altro. Un solfeggio melodioso e necessario. Dell’immagine rimane l’essenza, l’impronta, la "verità di ciò che è dentro", come ha scritto Roberto Tassi. Anche il colore rispetta questa scelta e si strappa di dosso la pellicola più lucente.
Non sempre l’istinto lo porta nella giusta direzione. Come quando in Francia rimarrà suggestionato da una serie di pittori che, lontani dalla figurazione, avevano abbracciato l’abstraction lyrique: "In un primo momento mi sono perso. I miei dipinti sono diventati più decorativi, pendenti all’astrattismo. Mi sono accorto che per me era una cosa forzata e sono riuscito a reintegrare la mia strada. Però sono stato messo un po’ in disparte e ne ho sofferto".
Il 1970 è un anno per lui molto importante: alla Galerie de France, Music espone un gruppo di tele intitolate Nous sommes pas les dernieres (Non siamo gli ultimi). Improvvisa, inattesa e straziante rievocazione del periodo di Dachau. Queste opere non hanno niente dell’incubo notturno, semmai è la necessità di trasformare la sua esperienza in monito, per un mondo che già allora tornava ad acuire ancor più pericolose tensioni. "State attenti!", ci dicono le sue tele, "non siamo gli ultimi". Inoltre, in quel momento, egli sente la necessità di riconoscere il debito artistico nei confronti dell’esperienza più terribile della sua vita.
Nuove "Colline", dunque. Non sono le sue doline, non i calanchi che, nel dopoguerra, visti dal treno scendendo verso Roma, ispirarono molti suoi quadri: queste colline, queste alture, queste montagne interiori, sono formate da cumuli di cadaveri. Cadaveri rimasti per venticinque anni all’interno di ogni opera che pareva non raffigurarli. Mentre li dipinge, come fosse materia viva, la pennellata inizia ad allargare il pigmento. La tavolozza gradualmente si imbrunisce.
Superata la metà degli anni ’70, tornano i "Paesaggi rocciosi", ma iniziano anche nuovi cicli: gli scorci vaporosi di una Venezia meno visitata, gli "Interni di Cattedrali". Dal buio, affiorano in superficie numerosi ritratti e "Autoritratti" ed è in questo momento, per riprendere il giudizio di Jean Clair, che egli raggiunge uno dei punti più alti e toccanti della sua pittura: filamentose e commoventi apparizioni, realizzati prima che inizino a scorrere i titoli di coda che porteranno a conclusione una storia che solo un artista della sua qualità poteva trasformare in poesia.
Alla fine ho chiesto a Jean Clair dove collocherebbe un pittore come Zoran Music, tra i flussi e le aritmie stilistiche dell’arte contemporanea: "Non lo collocherei, per la semplice ragione che non riuscirei a collocarlo. Come tutti i grandi artisti del Novecento, egli non può essere inserito con precisione da nessuna parte. La sua unicità è la sua grandezza. Avevano tentato in Francia di inserirlo nell’Ecole de Paris, fu un grossolano errore poiché la sua ricerca espressiva era tutt’altro che astratta e delicata. Egli, pur amato da critici di grande valore, penso ad André Chastel, ad esempio, non ha nulla di francese. Oltre ai suoi luoghi di origine, alla Spagna e a Kokoschka, in lui vi è la luce tonale e calda della grande tradizione veneta, l’arte bizantina, ma non la Francia".