“A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino”. Pablo Picasso, pittore “dagli occhi che uccidono”
Centoquarantatré anni fa, a Malaga, nacque Pablo Picasso. Amava essere amato, ma amava anche essere temuto. “Il successo è pericoloso. Si comincia a copiare se stessi, e copiare se stessi è più pericoloso che copiare gli altri. Porta alla sterilità”
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Dire che centoquarantatré anni fa, a Malaga, nacque Pablo Picasso, potrebbe essere più che sufficiente. Non un punto di partenza, ma di arrivo. Nella mente, ognuno ritrova un quadro, una foto, una sua celebre frase, un passaggio biografico. Egli è, infatti, universalmente conosciuto e celebrato, per quanto poliedrica, sfaccettata, composita, spiazzante e depistante sia stata la sua traiettoria artistica. Di lui pensiamo di saper tutto. “Sembra un Picasso, lo sa fare anche un bambino” è una considerazione entrata nel gergo comune e utilizzata con sarcasmo soprattutto da chi non si è mai interessato d’arte. Senza sapere che egli stesso disse: “A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino”.
Ugualmente, però, sembra ora un controsenso ricordare l’artista più significativo del secolo scorso citandone solo il nome.
La storia dell’arte ha un corpo flessibile che la rende ancora più affascinante: ombre e luci si alternano nel tempo, modificando sia l’ordine dei valori, che la misura prospettica della creatività. Al suo interno, alcuni punti di riferimento hanno però acquistato un valore assoluto e non manipolabile dalle mode o dal mercato. Ecco perché rivisitare a distanza di tempo l’opera di alcuni artisti, così da consolidarne la grandezza, consente di avvicinarsi alla loro indefinibile sostanza interiore. Una di queste certezze rende impossibile ridisegnare la mappa dell’arte contemporanea, partendo dalle sue fondamenta, senza inserirvi nel punto più alto il nome di Picasso (1881 –1973). Una posizione a lui assegnata mentre era ancora in vita e dalla quale mai più è stato rimosso.
Non ha solo scardinato le porte della contemporaneità: il flusso della sua arte è avanzato in più direzioni, ramificandosi nel solco rivoluzionario delle avanguardie. Egli progetta senza programmare: le sue opere non sono precedute da apparati teorici, crea per necessità, infatti dice: “Quando dipingo il mio obiettivo è mostrare ciò che ho trovato, e non ciò che sto cercando. In arte le intenzioni non bastano”. Inserisce l’immaginazione tra ciò che lo circonda e, con occhio predatore, se ne appropria, così da coglierne similitudini e diversità. Di quel che vede sono i lati contrastanti ad attrarlo in modo particolare, infatti, osservando la sua pittura si nota che, avanzando, indietreggia e, con pari convinzione, indietreggiando avanza. Nella sua arte, tutto interagisce e diviene necessario.
Innovatore, spietato distruttore della forma e delle convenzioni e, al contempo, “ricapitolatore” elegante e d’impostazione classica. Bulimico accumulatore di stimoli visivi. Stilisticamente onnivoro eppure riconoscibilissimo; poliedrico, dall’energia inesauribile, versatile, Picasso, come ha detto Jean Claire: “Ha tentato di riassumere in sé tutto il retaggio esistente”. Una presenza calamitante e ancora vicina a noi, raggiungibilissima, eppure ha sempre avuto le sembianze di una figura mitica, precedente alla storia di cui pur si è nutrito.
I miti si amano e si temono. Picasso stesso amava essere amato, ma amava anche essere temuto. Apollinaire, per citare solo un esempio, consigliò a Marc Chagall di tenerlo a distanza nel momento in cui il giovane pittore russo, giunto a Parigi nel 1910, espresse il desiderio di incontrarlo. Ancora: Picasso “dagli occhi che uccidono” (Rafael Alberti); genio implacabile e divorante, segnato da “appropriazioni e saccheggi” (Moravia). Picasso non si ferma, non si accontenta: al cubismo rimarrà legato non più di tre anni. “Il successo è pericoloso. Si comincia a copiare se stessi, e copiare se stessi è più pericoloso che copiare gli altri. Porta alla sterilità”.
Una produzione sconfinata, straripante. Ma, a differenza dei personaggi mitologici, di lui, come si è detto, si ha l’impressione di sapere tutto, poiché tutto pare essere stato scritto, indagato, commentato. Non c’è opera di cui non si conosca la data e il titolo, così come il luogo dove fu realizzata. Si sa chi ha incontrato, i sodalizi artistici, i luoghi di vacanza. Non c’è relazione sentimentale che non sia accompagnata da testimonianze.
L’arte africana, ma anche l’archeologia attrasse il suo sguardo: vasi, statue, placche votive, rilievi, idoli, stele, oltre a reperti greci e romani, lo stile arcaico delle antiche statuette iberiche. Satiri peccaminosi o danzanti, la brutale forza del Minotauro, e poi ninfe, fauni, centauri. Non ultima la capacità di rivisitare opere celebri o di far sue immagini germogliate altrove.
Anche la montagna, sia pur sporadicamente, entra nella sua arte. In poche occasioni viene raffigurata in primo piano. Però, agli occhi di chi guarda compare col volto di Cezanne, come segno di assoluta riconoscenza nei suoi confronti, poiché fu colui che gli indicò la strada del Cubismo. Nelle rocce di Mont Sainte-Victoire, sezionate dalla luce, Picasso coglie le geometrie de “Les Demoiselles d’Avignon”, opera che segnerà l’inizio della contemporaneità: inizia a dipingerla alla fine del 1906. Cezanne muore nell’ottobre dello stesso anno.