"Vivo finché riesco a fare il mio formaggio e guardare i miei animali". A 90 anni è uno degli ultimi 'bergamini' della Valle Imagna
Nelle sue parole scorre l'eco di un mondo scomparso, e che ha plasmato la storia, la cultura e i sapori delle Orobie
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Vedendolo la prima volta, è difficile indovinare che Carlo “Carlì” Rota abbia novant'anni suonati: un'età, la sua, che forse si potrebbe intuire dalla lentezza dei movimenti e dal viso segnato dallo scorrere degli inverni, che anno dopo anno si portano via un poco della sua forza fisica, ma di certo non del suo nerbo. Barba bianca, occhi chiari e vivaci, un corpo ancora vigoroso e le mani grosse, segnate dal lavoro quotidiano: novant'anni, dicevamo, di cui più di ottanta trascorsi facendo il formaggio e conducendo gli animali su e giù dalle sue montagne, in queste valli bergamasche nel cuore delle Prealpi Orobie.
Quella di Carlì è una storia d'altri tempi, una testimonianza che s'allunga a cavallo tra il presente e un passato vicinissimo eppure remoto, di un mondo che era il nostro ma che oggi sembra quasi appartenere al mito. È la storia di tutti i bergamini, i mandriani e casari transumanti orobici che solcavano le valli e gli alpeggi, intrecciando il legame antichissimo tra montagna e pianura, tra città e altura.
Nato casaro
«Io sono nato bergamino, figlio e nipote di bergamini: la mia famiglia ha sempre fatto questo lavoro», racconta Carlì. Classe ’33, famiglia di allevatori e casari di Locatello in Valle Imagna (BG), Carlì racconta la sua vita affastellando episodi del passato ad accadimenti più recenti. Il suo primo formaggio, ad esempio, l’ha preparato a cinque anni insieme al nonno. «Nel lavoro di mandriani» spiega «non c’era spazio per il riposo, nemmeno per i bambini. Tutti avevano sempre qualcosa da fare, e così il nonno mi ha messo lì a fare la cagliata. Io l’ho capito subito che ero bravo, che mi piaceva, e infatti da quella volta non ho più smesso». Vacche, formaggio, fieno, verticalità prealpine: un susseguirsi di ritualità che l’hanno plasmato, e a cui oggi non riuscirebbe a rinunciare. «Sai quando mi sono sentito di morire? Quando, qualche anno fa, sono dovuto stare tre mesi fermo, prima in ospedale e poi in casa, perché mi ero fatto male alla gamba. Io sono vivo finché riesco a fare il mio formaggio e guardare i miei animali».
Vita bergamina
In barba a chi ritiene che i montanari siano burberi e chiusi, Carlì è un fiume in piena di racconti e ricordi. Del resto – spiega – chi faceva questo lavoro doveva spostarsi continuamente, interagire con i territori e le comunità su cui transumava, vendere il proprio formaggio, stringere accordi e sviluppare alleanze con le genti di pianura: i bergamini infatti trascorrevano i mesi invernali nelle grandi cascine del milanese, del bresciano e del cremasco, e ricambiava l'ospitalità e il fieno con formaggi e letame. Era un ciclo che conveniva a entrambe le parti, e che – a differenza di quanto spesso avviene oggi – rendeva la montagna e la pianura interdipendenti e alleate: le grandi compagini agricole di pianura mantenevano fertili i propri campi grazie al passaggio invernale degli allevatori montanari, i quali così avevano spazi di appoggio per i mesi freddi prima di tornare a volgere sguardi e animali verso le alture e gli alpeggi estivi.
Diplomatici di passaggio più che coriacei personaggi di montagna, i bergamini rappresentavano il cuore dell’allevamento orobico e della produzione casearia orobica. E infatti la maggior parte dei formaggi che ancora oggi raccontano l’eccellenza del territorio derivano proprio da questa tradizione antichissima… A cominciare proprio dallo stracchino, il cui nome deriva dal bergamasco stràc, cioè stanco, e il motivo è presto detto: si tratta di un formaggio morbido, che “si lascia andare”, prodotto con il latte crudo appena munto così che potesse essere conservato e trasportato con più agio.
Per Carlì, preparare lo stracchino è una specie di rito quotidiano. Sebbene in passato avesse un centinaio di vacche, ora ne ha solo quattro. Non le porta più in alpeggio al Pai, sul confine tra la bergamasca e il lecchese, perché le gambe lo tradiscono e la forza non è più quella di una volta, ma continua a mungerle ogni giorno, mattina a sera. Per tutta la vita, racconta, le mucche le ha sempre munte a mano. «Per farle tutte e cento, ci si mettevano ore. Due volte al giorno, ovviamente. Alla fine, non ti sentivi più le dita e il braccio, da tanto che eri stanco».
La fatica oltre le romanticizzazioni
Quella dei bergamini non era un’esistenza facile: certo, non era povera, perché – racconta Carlì – da mangiare non mancava mai. Ma era difficile, durissima. Le oltre cento mucche della famiglia andavano munte tutte a mattina e a sera e il latte trasportato e lavorato immediatamente. A questo si aggiungevano poi il fieno da tagliare e trasportare (il tutto su sentieri e tracciati impervi e quasi verticali e caricandoselo sulle spalle in gerle pesantissime), le incombenze quotidiane, la cura degli animali, il formaggio da stagionare e da vendere.
Una vita che non faceva sconti, e segnava irrimediabilmente la quotidianità di chi la viveva. Carlì ricorda episodi di paura – ad esempio quando si ribaltò sul pendio con la gerla del fieno, e oltre a farsi male alla schiena fu anche sgridato perché aveva lasciato il carico per strada – e di rammarico. «Io avrei voluto studiare. Ma il giorno dell’esame dovevamo essere già in alpeggio, altrimenti avrebbero dato le concessioni ad altri mandriani. Così non ho potuto farlo. Mi è dispiaciuto. Non sai quanto ho pianto, quella volta. Ero così triste che nel percorso verso l’alpeggio dimenticai in giro una delle nostre lanterne: la appoggiai per terra e me la scordai lì, perché c’avevo la testa altrove. I miei si arrabbiarono moltissimo, e dovetti tornare indietro al buio a prenderla. Sai, per legge eravamo obbligati ad avere tre lanterne: una all’inizio della mandria, una alla fine e una al centro: se non ce le avevamo, potevamo prendere multe. Per questo si arrabbiarono».
Come mai non fece l’esame l’anno successivo?, gli chiedo. Lui si stringe nelle spalle, come a segnare un’ineluttabilità di fondo. «Perché cambiammo cascina di appoggio per la stagione fredda, in pianura, e non vidi più la maestra che in inverno mi aiutava a studiare. Da solo, non ci sarei mai riuscito: il lavoro con gli animali era troppo, e troppo faticoso. Non ce la feci. Ma va bene così: in fondo amo questo lavoro, non potrei fare altro. Sono nato per gli animali, così diceva mia mamma, e credo avesse ragione. Si è ciò che si nasce», conclude. «E io, dopotutto, sono nato bergamino».