Valichi montani: punto di partenza o di arrivo? Uniscono o separano? La "grande occasione di un continuo mutare"
L'ennesimo passo raggiunto in bicicletta. L'incontro con una scritta che accende una domanda. Una piccola riflessione su tutto ciò che può significare un valico
Alcuni giorni fa pedalavo da solo, al mattino, lungo i tornanti del versante boscoso di una montagna secondaria tra Carnia e Val Tramontina, il Monte Rest.
Il versante era ancora completamente in ombra e io salivo leggero, godendomi una frescura pungente e piacevolissima, tanto agognata nell’afa dell’estate cittadina. Quelle pendenze, abbastanza severe, non si facevano nemmeno sentire nei muscoli delle gambe, tanto stavo bene.
Durante le ultime rampe prima dello scollinamento, guardando verso l’alto, ho pensato che la montagna, nei disegni dei bambini ma anche nelle rappresentazioni di noi adulti, ha sempre la forma di una V rovesciata. La cima appuntita, là in alto, è simbolo e meta, punto dominante in cui si intersecano aspirazioni, sogni, sfide, bellezza, desiderio, alti slanci poetici e più basse brame di conquista.
Ma le montagne, mi ripetevo osservando i versanti che si aprivano a destra e a sinistra di fronte ai miei occhi, sono fatte tanto di cime quanto di altri elementi geografici dalla forma diametralmente opposta. Semplici V, la cui punta sta in basso: i passi, le selle, le forche, le forcelle, i valichi.
Arrivato sulla mia cima, o meglio, alla “Forcella Passo Rest - 1052 m s.l.m.”, in un silenzio quasi irreale, mentre poggiavo il piede a terra per rifiatare e bevevo dalla borraccia, ho letto sul grande cartello marrone con il nome del valico una frase curiosa: “Una montagna che unisce”. Ma unisce cosa? Mi sono chiesto.
Così ho iniziato a guardarmi attorno. Di fianco a me avevo la striscia d’asfalto e i boschi di faggio, poco distante una macchina parcheggiata e scoscese pareti rocciose, e ancora un prato sfalciato, un rapace che volteggiava nel cielo, un mezzo forestale e un traliccio dell’elettricità.
Luoghi strani i valichi, ho pensato. Spesso punti di partenza e non d’arrivo per chi ama le avventure nella montagna più “pura”, più “vera”. Luoghi dove si parcheggia per poi infilarsi zaino e scarponi, oppure dove si transita rapidamente, per poi raggiungere altre terre lontane da esplorare, da vivere. Luoghi che diventano iconici solo grazie a grandi storie di sport o in quanto punti di passaggio per tour panoramici in auto, in moto, in camper… meglio in bicicletta.
Luoghi alti, lontani dai fondovalle, ma decisamente antropizzati, da sempre sfruttati per mettere in comunicazione territori vicini e al tempo stesso lontani, a causa di quei mostri di roccia e boschi - solo apparentemente invalicabili - che sono i rilievi.
Queste “depressioni dei contrafforti montuosi attraverso i quali passano vie di comunicazione”, come li definisce il dizionario, assommano talvolta peculiarità umane non molto apprezzabili: architetture fuori scala non di rado in abbandono, traffico, ampi parcheggi, musica a tutto volume, cartelli pubblicitari, vetrine traboccanti di souvenir di strani bar-ristoranti dall’aria un po’ kitsch, rumorose partenze di impianti di risalita o arrivi di piste da sci, monumenti dimenticati, schiamazzi, asfalto, ruggine, odore di sugo misto a benzina.
Eppure, ho sempre nutrito un fascino particolare per i valichi. Certo, soprattutto per quelli minori, proprio come il Rest, non ancora entrati “nel mito” o nell’agone turistico, ma devo ammettere che anche quelli più blasonati mi attirano da sempre, come una grande calamita. Perché quei passaggi in quota, individuati dai nostri avi grazie a un’osservazione attenta e a una conoscenza meticolosa del territorio, sono in fondo, a mio parere, luoghi geografici democratici e commoventi, in cui il grosso dell’esperienza umana, quella non riservata a pochi eletti, più si avvicina all’alta montagna.
Vi trovi il camionista e il boscaiolo, l’alpinista e il cicloamatore, il centauro e il trail runner, l’operaio stradale e lo scienziato, il fotografo e l’agricoltore, la famiglia agitata e il bus turistico che scarica una comitiva di pesci fuor d’acqua. Vi trovi la targa di marmo che parla di importanti personaggi o eventi storici e le centinaia di adesivi, sui cartelli con il nome e la quota, di chi sente l’esigenza di lasciare un discutibile segno del proprio passaggio. Vi trovi talvolta l’altare, o la cappella, insieme alle luccicanti insegne della religione del consumismo. Tutto questo insieme, dannatamente antropico, è circondato dalle alte vette, da boschi, pareti e persino ghiacciai. Un’atmosfera straniante, i segni di un’umanità che, con tutti i suoi limiti, i suoi slanci, le sue storture e goffaggini, ha provato e prova ancora ad affacciarsi alla montagna. Un mix caleidoscopico che spesso fa incazzare, che talvolta rattristisce, ma che invita a riflettere sul significato profondo di questi “luoghi di mezzo”, di questi “purgatori” tra vette e fondovalle, di questi spazi misteriosi e sospesi.
Ho letto ancora quella frase, “La montagna che unisce”, e ancora una volta mi sono chiesto: “Ma unisce cosa?!”
Il valico è da sempre simbolo di montagna aperta: a contaminazioni, a incontri, a culture che si intersecano arricchendosi a vicenda. Il valico però è talvolta anche confine: montagna che si chiude, nuovi fili spinati, materiali o mentali, che emergono laddove erano solo un vago e arrugginito ricordo. Il valico è teatro di addii, trampolino di ritorni, porta di eserciti, finestra su altri mondi.
Lo ammetto, mi affascinano i valichi in primo luogo perché spesso, per me che amo pedalare, essi rappresentano la cima, il punto d’arrivo di grandi e belle fatiche, come quella vissuta quel giorno sul Rest. Non ho avuto in dono le capacità e il coraggio di affrontare le grandi pareti e di raggiungere tutte le “V rovesciate” che amo studiare sulle mappe, osservare nel paesaggio e poi sognare leggendo le storie dei grandi alpinisti. Così ho iniziato, forse per semplice compensazione, a collezionare valichi, le “V normali”.
E frequentandoli assiduamente ho sentito che quelle V, grandi o piccole, blasonate o sconosciute, chiassose o silenziose, rappresentano soprattutto una potente metafora.
Quando arrivo sotto ai cartelli stradali che indicano il passo e mi fermo a bere e a rifiatare, come quel giorno sul Rest, osservo la salita alle spalle e la discesa davanti agli occhi e penso che la nostra esistenza non è altro che una lunga strada tra le montagne. Un cammino che passa in bui fondovalle e al cospetto di vette meravigliose, molto ben visibili ma che non sempre possiamo raggiungere. I valichi invece sì, sono lassù tra quelle cime ma posizionati un po’ più in basso, fatti proprio per essere attraversati da chiunque, anche da chi non amiamo, anche da chi non ci assomiglia. Sogni a portata di mano, ma non per questo meno nobili, meno sogni.
Unisce cosa, il valico? Unisce tanto: luoghi e pensieri, storie e persone, esseri umani e montagne.
Così, dopo un ennesimo e un po' delirante “elogio dei valichi”, ho riagganciato le scarpette e mi sono lasciato andare, in discesa, osservando cambiare all’improvviso la morfologia e la vegetazione, sentendo un’aria diversa sulla pelle, profumi nuovi nelle narici. È anche questo, il valico: la grande occasione di un continuo mutare.
Su e giù, là dove qualcuno prima di noi ha individuato un passaggio e costruito una strada che per volontà, per caso o fortuna, abbiamo iniziato a percorrere.
Tra “discese ardite e risalite” scriveva Mogol: di chilometro in chilometro, di valico in valico, come la vita.
Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.