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Cultura

Un suo disegno venne pubblicamente bruciato durante un processo. I suoi soggetti imbarazzavano, scuotendo la pubblica morale, ma quella di Egon Schiele era un'arte che esprimeva una sensibilità rara e profonda

Quando si entra in contatto con la pittura di Egon Schiele (nato in Austria il 12 giugno 1890) si ha l’impressione di varcare ad occhi aperti la soglia che separa la ragione dall’inconscio con una lucidità e una sintesi percettiva che ci concediamo solo quando la mente procede allacciata stretta ai cordoni del sogno. Quando cioè non è necessario mascherare o attenuare la fonte segreta e diretta di ogni più intima pulsione

di
Silvio Lacasella
12 giugno | 12:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Siamo nella metà del Novecento quando Rudolph Leopold, medico oculista, inizia ad acquistare metodicamente i lavori di tutti gli artisti della Secessione: lo può fare perché, a quell’epoca, oscurati da ciò che era accaduto in Francia, erano ancora scarsamente considerati. Anni tutto sommato recenti, dunque.

 

Una collezione composta da oltre cinquemila opere, che verrà acquisita dallo Stato austriaco, per dar vita, dal 2001, al Leopold Museum, scrigno imperdibile d’arte per coloro che, in visita a Vienna, vogliono immergersi totalmente nel clima culturale del tempo. Klimt, Schiele e Kokoscka i preferiti. Basti pensare che del solo Egon Schiele, riuscì a raggruppare quarantaquattro dipinti (dei circa trecentoquaranta sino ad oggi catalogati) e duecentottanta lavori su carta (un decimo di quelli esistenti). Un fiuto formidabile e lungimirante, capace di porre a compimento un’impresa oggi irrealizzabile, non solo per l’altissima qualità delle opere, ma per le quotazioni che queste hanno raggiunto nel mercato.

 

Parte di questa formidabile sequenza di capolavori non di rado ha varcato i confini austriaci, così da “avvicinarli ad un pubblico internazionale”, per riprendere le parole che lo stesso Rudolph Leopold scrisse nel 2010, nel breve testo d’apertura al catalogo Skirà, stampato per accompagnare una mostra difficile da dimenticare, “Schiele e il suo tempo”, allestita nelle sale espositive di Palazzo Reale a Milano. Fu forse quello anche l’ultimo saluto “istituzionale” di Leopold, spentosi appena una ventina di giorni dopo la chiusura della mostra.

 

Tra le quaranta opere allora esposte, tre icone fondamentali di tutta la sua pittura: “Gli eremiti” del 1912, nella quale l’artista, in un’atmosfera paurosamente crepuscolare, si raffigura assieme a Klimt, di ventotto anni più vecchio: riferimento umano oltre che artistico, incontrato quando Schiele aveva diciassette anni. Nella grande tela del 1912 i due corpi, congiunti in un incastro che non lascia fessure, paiono come al solito piallati e raschiati sulla superficie del dipinto, così da ritrovare la materia sottostante, ovvero ciò che di solito l’occhio non vede. Tutto pare fondersi, Klimt sembra sorreggerlo. I volti hanno il medesimo colore dello sfondo, mentre i corpi sono simbolicamente stretti nel loro “errare” sotto a un unico mantello nero: “Corpi di uomini nauseati dalla vita, suicidi, ma uomini che provano sentimenti”.


Di formidabile e non inferiore intensità espressiva, anche “Autoritratto con alchechengi”, decisamente più piccolo, sempre del 1912: questa volta Schiele è solo all’interno di un dipinto dal taglio compositivo calibratissimo. Raffigurò se stesso un centinaio di volte, scrutandosi interiormente, senza compiacimenti narcisistici. Qui, come in molti altri casi, la prospettiva sghemba struttura lo spazio come prima non si era mai visto. Con le linee care alla Secessione, egli riesce a rappresentare in modo perfetto il suo carattere inquieto. Non c’è dramma, ma malinconia. Una malinconia infinita, segnata da una serie di ossessioni e ferite interiori. Gli alchechengi sullo sfondo, lontani dal decorativismo jugendstil, concedono un colore vivace che attrae l’attenzione dell’osservatore, permettendo all’artista di guardare senza essere guardato.


Infine, “Albero autunnale mosso dal vento”, straordinario come altri suoi simili soggetti: siamo ancora nel 1912, l’anno del carcere. Uno dei vertici della sua arte. L’albero, pigiato nella superficie al punto da sembrare una venatura del marmo, mantiene invece ancora in sé la vita. Il vento ha finalmente cessato di soffiare, non solo dopo averne fatto cadere le foglie, ma dopo essere riuscito a modificarne la struttura, proprio come il pittore desiderava. Quello che vediamo è un albero, ma è, anche questo, una sorta di autoritratto. Entrano quasi da sole, tra le righe, le parole dello stesso Schiele: “Tutto mi chiama alla mente i movimenti del corpo umano, i moti analoghi di gioia e di sofferenza delle piante. La sola pittura non mi basta, so che con i colori è possibile creare qualità intrinseche. Si può presentire intimamente, nel profondo del cuore, un albero autunnale in piena estate, io vorrei dipingere questa malinconia”.


Ogni volta con Schiele capita la stessa medesima cosa. Sempre, quando si entra in contatto con la sua pittura – una pittura in grado di commuoverci e stupirci, di coinvolgerci e incantarci come pochissime altre – si ha l’impressione di varcare ad occhi aperti la soglia che separa la ragione dall’inconscio con una lucidità e una sintesi percettiva che ci concediamo solo quando la mente procede allacciata stretta ai cordoni del sogno. Quando cioè non è necessario mascherare o attenuare la fonte segreta e diretta di ogni più intima pulsione.

 

Schiele dipinge questi quadri nel corso di una breve parabola artistica, interrotta quando l’artista non aveva che ventotto anni. Li dipinge nella Vienna di Freud, ma anche di Musil e Schnitzler. Nella città dove, sul finire del secolo e agli inizi del Novecento, con Otto Wagner e Gustav Klimt aveva già tracciato in profondità il solco della Secessione, con contorni marcati e neri a delimitare i soggetti, le forme, i colori, quasi fossero argini per evitare una imminente e inevitabile esondazione. Dove persino la grafica e la scrittura entrano in stretto contatto con la rappresentazione pittorica.

 

E’ una linea che dalla morbida andatura di Klimt assumerà con Schiele una spigolosità diversa, impietosa ed essenziale, “espressionista” verrà definita. Non solo pensata per delimitare un’immagine, ma un pensiero. Con l’arte si amalgamano la letteratura, la filosofia e, importantissima, la musica con le sue note più trattenute e solenni, a raccontarci una Vienna in decadenza o quelle più allarmate e laceranti preannuncianti i gemiti della Prima guerra mondiale; o, ancora, quelli, non meno drammatici, della terribile febbre spagnola che, tra il 1918 e il 1919, farà milioni di vittime in tutta Europa. La stessa interromperà bruscamente la vita di Schiele, di sua moglie Edith, di Otto Wagner, di Kolo Moser e di tantissimi altri. Nel 1918, rientrato da un viaggio i Romania, si spegne anche Klimt, ma a causa di un ictus e di una conseguente polmonite, tanto è vero che Schiele fece in tempo a ritrarlo nel letto di morte.

 

Di Egon Schiele sempre si scrive che fu ossessionato dal sesso e dalla morte. Un dato evidente, ma una verità parziale. Diciamo che affronta questi argomenti per quello che sono, a viso aperto, senza allusioni di sorta. Gli costerà cara questa scelta. I suoi soggetti imbarazzavano, scuotendo la pubblica morale, sino a creare reazioni censorie in una capitale asburgica che mal vedeva lo svilupparsi di un’arte successivamente considerata “degenerata”.

 

Tra il 1910 e il 1911 Egon Schiele soggiorna nella città di Krumau, nel sud della Boemia, città natale della madre, ma le proteste degli abitanti del luogo lo costringono a spostarsi a Neulengbach un paesino non lontano dalla capitale. Qui, accusato da un ufficiale della marina in pensione di aver circuito la figlia non ancora quattordicenne, venne imprigionato per ventun giorni con la pesantissima accusa di corruzione di minorenni, dalla quale peraltro fu poi scagionato. Ma si trovò comunque il modo di fargli scontare altre tre notti di detenzione, per aver prodotto “materiale pornografico facilmente accessibile agli occhi degli adolescenti”. Un suo disegno venne pubblicamente bruciato durante il processo.

 

Il pensiero finale va alla grande scritta che compare in rilievo sopra all’ingresso del Palazzo della Secessione, dall’anno della sua costruzione, 1897: “Ad ogni tempo la sua arte, all’arte la libertà”.

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