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Cultura

Strani alberi contorti, in una foto storica e nel paesaggio odierno: un filo rosso tra passato e futuro

Un piccolo dettaglio, osservato in una fotografia storica di un paesaggio alpino. Un'altra fotografia, scattata pochi giorni prima sull'Appennino. Una particolare tecnica di gestione degli alberi in contesti rurali ci racconta del passato e ci fa ragionare sul significato e sul valore dei "paesaggi storici"

di
Luigi Torreggiani
07 maggio | 19:00

Gli scorsi giorni ero a Trento. Visitando una bellissima mostra di immagini storiche del fotografo Franz Dantone detto “Pascalin”, organizzata nell’ambito del Trento Film Festival, ho notato un piccolo dettaglio, che avrà occupato circa un ventesimo (o forse meno!) dello spazio di una fotografia. Una bella immagine in bianco e nero, che immortala un noto lago alpino, quello di Alleghe, e il paesaggio tutt’attorno.

 

Tra campi curatissimi, a valle di un piccolo paese, il mio “occhio tecnico” mi ha portato a soffermarmi su degli strani alberi: bassi, tozzi, dalle forme contorte, senza chioma ma solo con tanti piccoli e sottili rametti sopra al tronco.

“In quanti visitatori della mostra si saranno accorti di quelle forme così insolite?”, mi sono chiesto avvicinandomi curioso alla stampa.

 

Si trattava molto probabilmente di alberi gestiti con la tecnica del cosiddetto “pollarding”, in italiano “ceduo a capitozza” o “potatura a testa di salice”. Quelli della foto, vicino al lago, erano verosimilmente proprio dei salici, che annualmente oppure ogni due-tre anni venivano potati per ricavare sottili assortimenti legnosi adatti a varie lavorazioni tipiche dell’artigianato contadino. Servivano, ad esempio, per fare cesti, ma anche (in altre zone) per legare i tralci delle viti e poi per tanti altri utilizzi minuti.

 

Questi singolari elementi arborei erano un tempo assai diffusi nel paesaggio rurale italiano, anche in ambiente alpino come dimostra la fotografia di Dantone. Oggi, in molte zone, sono invece scomparsi quasi del tutto. Sono spariti semplicemente perché non necessitiamo più di quella peculiare materia prima, oppure, talvolta, perché si è perso il “passaggio di testimone” di una pratica tramandata di generazione in generazione, che anche senza valore economico conservava un significato tradizionale, sentimentale.

 

Nella mia terra d’origine, in particolare sulle prime colline dell’Appennino piacentino, talvolta si trovano ancora rari salici gestiti così, proprio come quelli della fotografia. Ironia della sorte, ne avevo fotografati alcuni proprio il giorno prima di recarmi a Trento. E questo “incontro” aveva generato in me una piccola riflessione.

“Un turista che passa di qui”, avevo pensato, “molto probabilmente potrebbe percepire in questi alberi contorti un maltrattamento crudele e deleterio per la loro salute, confondendo l’antica tecnica della testa di salice con la capitozzatura del verde urbano, una pratica effettivamente dannosa che purtroppo ancora persiste in troppi comuni italiani”.

 

Questi alberi all'apparenza così brutti e mostruosi ai nostri “occhi moderni”, non più abituati alle pratiche contadine, sono in realtà una testimonianza preziosissima di un paesaggio agro-forestale storico che stiamo perdendo. Ciò che avevo fotografato sulle colline piacentine è a tutti gli effetti un piccolo-grande “museo a cielo aperto”, mantenuto da “conservatori” probabilmente non del tutto consapevoli del suo valore, che a ben vedere può essere considerato pari a quello delle foto storiche di Franz Dantone detto “Pascalin”.

 

Ma il paesaggio non è un quadro: cambia, rapidamente, in base ai mutamenti socioeconomici della nostra società. Fossilizzarsi sulla “musealizzazione” di un qualcosa di dinamico e strettamente legato al contesto socio-economico non è certamente corretto e possibile ovunque. Ma conservare almeno in parte questi elementi e riscoprirne l’utilizzo artigianale, magari per sostituire un po’ di plastica, potrebbe essere un’operazione molto interessante e utile, dal punto di vista culturale ma anche, perché no, produttivo.

 

In Francia, ad esempio, un’Associazione nata per promuovere l'agroforestazione (l’insieme dei sistemi agricoli che vedono la coltivazione di specie arboree e/o arbustive perenni consociate a seminativi e/o pascoli nella stessa unità di superficie), scrive rispetto al ceduo a capitozza: “Serbatoio di biodiversità, indicatore del paesaggio, patrimonio culturale… una capitozza ben gestita non è un albero mutilato, anzi! È una fabbrica di biomassa e biodiversità”.

Tornando verso casa ho pensato che tra la foto in bianco e nero di Dantone, realizzata con un pesante banco ottico, e le mie a colori, fatte al volo dal finestrino dell’auto con un banale smartphone, c’è un filo rosso che unisce passato e futuro. Un legame che rischia di spezzarsi non solo con l’avanzare di nuove tecniche ed esigenze, ma anche per l’incapacità sempre più diffusa di saper “leggere” il paesaggio, i suoi mutamenti, i valori che mostra e nasconde in base agli “occhiali culturali” che indossiamo per osservarlo.

l'autore
Luigi Torreggiani

Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella. 

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