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Cultura

Nei due anni in cui durò, nel mondo morirono di “Spagnola” oltre 50 milioni di persone: tra esse Umberto Moggioli, artista che guardava al futuro con grande speranza

Umberto Moggioli è nato a Trento centotrentotto anni fa, il 25 giugno 1886: saremmo qui a raccontare una storia diversa se, nel gennaio del 1919, la febbre spagnola non lo avesse repentinamente tolto di scena, a soli trentatré anni

di
Silvio Lacasella
25 giugno | 13:15
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Umberto Moggioli è nato a Trento centotrentotto anni fa, il 25 giugno 1886: saremmo qui a raccontare una storia diversa se, nel gennaio del 1919, la febbre spagnola non lo avesse repentinamente tolto di scena, a soli trentatré anni. Una storia di sicuro arricchita da capitoli importanti. Quando ne fu colpito, infatti, durante il più prolungato dei soggiorni romani, i colori nella sua tavolozza avevano già iniziato a fondersi, in modo naturale, con le gradazioni di una luce diversa, tonale e calda, meno mentale delle precedenti. Con parole molto belle descrisse questo suo stato d’animo: “Il pittore vive come in un sogno, abbracciato da questo sole e da questa splendida natura. Tutto solo nell’aperta campagna o nella villa o fra le rovine dell’antica Roma”.

 

Un percorso che, di certo, lo avrebbe portato lontano. Invece, rimase vittima della medesima e violenta epidemia che, solo tre mesi prima a Vienna, aveva bloccato anche Egon Schiele e, con lui, una parte importante degli esponenti della Secessione. D’altronde, nei due anni in cui durò, tra il 1918 e il 1920, nel mondo morirono di “Spagnola” oltre 50 milioni di persone.

 

Alcune di queste se ne andarono nella pienezza di un’energia creativa dirompente, tanto è vero che, prima di arrendersi, furono capaci di lasciare tracce indelebili del loro talento. Il perdurare della guerra e le conseguenti condizioni disagiate della popolazione fece il resto, debilitando quei giovani corpi, sino a renderli maggiormente vulnerabili. Non a caso, ne fu colpita soprattutto la fascia d’età compresa tra i venti e i quarant’anni: l’esatto contrario di quanto avviene abitualmente. Il vuoto generazionale che si venne a creare creò un dramma nel dramma, aggravando gli effetti della pandemia.

 

Moggioli, figlio di un fornaio, lo troviamo già nel 1904 iscritto all’Accademia di Belle Arti a Venezia, grazie al sostegno economico di Antonio Tambosi, imprenditore e politico trentino (deputato al parlamento di Vienna dal 1901 al 1905), oltre che mecenate sensibile e Presidente della società degli alpinisti tridentini. Dopo aver ottenuto il diploma nel 1907, poco più che ventenne, il giovane Umberto sente forte il desiderio di visitare Roma. La città lagunare, però, rimarrà ancora per molto tempo un grande punto di riferimento: con le sue acque specchianti, col lampeggiare dei suoi riflessi, con i cristalli di sale fissati dall’umidità e dal vento all’esterno di ogni abitazione: elementi visivi che il suo animo aperto saprà trasformare in arte. Venezia, però, rappresentava anche un luogo privilegiato per riflettere sui grandi pittori veneti del passato, così da rielaborare, in chiave diversa, il Simbolismo tardo ottocentesco che, soffiato nelle sue terre dal Nord Europa, ne aveva condizionato, sin dagli esordi, la struttura compositiva. Un’affascinante “coabitazione” stilistica caratterizzerà in questa fase la sua ricerca espressiva, specie quando egli iniziò a diffondere nelle tele un’atmosfera crepuscolare, quando cioè i colori della notte e quelli del giorno – proprio come avviene in natura - per qualche attimo, si compenetrano vicendevolmente. Così accadrà in uno dei suoi dipinti più celebri: “Ponte verde” (il ponte che, ancor oggi, congiunge Mazzorbo a Burano) del 1914, oppure, sempre del medesimo anno, in un secondo dipinto, non meno suggestivo: “Sera di primavera”, con la luna alta nel cielo e Burano nello sfondo.

Burano non è la Polinesia di Gauguin, però un pensiero alla biografia del pittore francese Moggioli deve averlo fatto. Tanto è vero che i mesi trascorsi nell’isola si rivelarono determinanti. Sin dal primo soggiorno, quello del 1909, anno in cui espose per la prima volta alla Biennale di Venezia: Umberto Moggioli sale sul vaporetto per raggiungere Pieretto Bianco, affiancandolo nell’impegnativa stesura dei quattordici pannelli decorativi da collocare nel Padiglione Centrale dei Giardini di Castello. Incantato dall’integrità di una terra circondata dal mare, ma raggiungibile in poco tempo, nel 1911, vi troverà casa, così da immergere la sua pittura in una quiete fervida e produttiva. Dopo poco vi arrivò Gino Rossi e, con lui, altri giovani “ribelli”: Arturo Martini, Tullio Garbari, Arturo Malossi, Ugo Valeri, Luigi Scopinich, Pio Semeghini, dando vita alla Scuola di Burano, sostenuta e incoraggiata da Nino Barbantini, l’allora direttore di Ca’ Pesaro. Artisti sostanzialmente uniti, più che dall’andatura pittorica, dalla medesima urgenza di rinnovamento. Il clima artistico del tempo emerge anche dalle parole di Felice Casorati, scritte a Barbantini nel 1920: “Non esporrò alla Biennale perché preferisco la compagnia dei pochi che non esporranno alla confusa comunanza dei troppi (…) vuoi concedermi tu una delle silenziose salette di Ca’ Pesaro?”

L’esperienza produrrà solo in parte gli effetti desiderati. Oltretutto, nel 1915, col sopraggiungere della guerra: Gino Rossi, chiamato alle armi, viene inviato al fronte, mentre Moggioli decide addirittura di arruolarsi volontario nella Legione Tridentina di Verona, con mansione di cartografo: un fervore patriottico, il suo, in qualche misura “temprato” dall’amicizia che lo legava a Cesare Battisti, acceso irredentista. Come sappiamo, Cesare Battisti venne poi catturato dalle truppe di montagna austriache e giustiziato proprio nella sua Trento il 12 luglio 1916, nella fossa del castello del Buonconsiglio.

 

Qui manca un passaggio biografico, fatto sta che per seri problemi di salute Umberto Moggioli viene riformato e, alla fine di quello stesso 1916, lo troviamo già a Roma. Vi arriva, sollecitato dal pittore Antonio Rizzi, dopo un periodo di convalescenza trascorso tra i monti Lessini e le colline di Cavaion Veronese, dove troverà modo di risanare anche il suo rapporto con la pittura, dopo mesi passati a fare plastici e rilevamenti.

 

Giunto a Roma, trova studio e alloggio con la moglie Anna, in uno dei locali che, dal 1880, il nobile alsaziano Alfred Wilhelm Strohl (1847.1927), iniziò a mettere a disposizione degli artisti. Inserito nel verde del parco di Villa Borghese, sarà questa, per Moggioli, una seconda isola, raggiunta grazie ad un secondo mecenate, dopo quello degli esordi trentini. Quella di Villa Strohl-Fern (l’aggettivo Fern sta a significare “libero” o “senza patria”) è una storia durata circa ottant’anni. Raccontarla non è semplice, tanto essa è particolare. Si potrebbe iniziare col dire che dal 1957 la struttura si è in larga misura trasformata in edificio scolastico, di proprietà francese. Se questa vicenda non fosse così vicina a noi e ampiamente documentata, parrebbe uscita da una fiaba, scritta apposta per i turisti. Un piccolo, enorme “parco fatato”, lo descriverà Donatella Trombatori, figlia del pittore Francesco Trombadori, ricordandosi bambina. Alcune presenze: Carlo Levi, Virgilio Guidi, Carlo Socrate, Arturo Martini, Armando Spadini, Ercole Drei, tutti studi muniti di lucernari rivolti verso nord. Non solo presenze italiane e non solo pittori e scultori: valga per tutti il poeta Rainer Maria Rilke.

In una lettera, Francesco Trombadori descrive così il posto a lui assegnato: “Al piano terra con cipressi davanti alla finestra, malinconico come una tomba, però pratico secondo il mio giudizio. La villa ha un giardino bellissimo nel quale potrei mettere un mio modello e dipingerlo. C’è una stanzetta così abiterò lì, con una monocamera arredata. Rinuncerò ad ogni confort, tanto lo fanno tutti qui e vivrò come uno spartano”. Da come lo descrive, sembra essere questo il suo primo studio, poi si trasferirà in quello assai più spazioso, lasciato libero da Cipriano Efiso Oppo.

 

“Malinconico come una tomba”: un’affermazione che sorprende. Probabile che Trombadori intendesse rimarcare in forma scaramantica la presenza dei cipressi, in realtà sapeva perfettamente di essere a un passo da piazza del Popolo, a due da piazza di Spagna, dall’Accademia e da molto altro ancora. Due note finali: “Cipresso gemello” è il titolo di uno dei quadri più conosciuti e riprodotti di Moggioli, luminoso come pochi altri del primo periodo (1912 - Collezione del Mart). Inoltre, vi è una seconda, toccante coincidenza: quel tanto “malinconico” studio, segnato nella mappa col numero 24, era proprio quello occupato in precedenza da Umberto Moggioli.

 

L’alone lasciato nella sua pittura da Gino Rossi pare allontanarsi definitivamente: i contorni ora svaporano, sostituiti da atmosfere assai più pastose, che portano forse a Vuillard o alle accese risonanze timbriche di Bonnard. Non ci sono dubbi: Moggioli guardava al futuro con grande speranza. Quella imboccata era la strada giusta e lo scrisse: “L’arte che faccio adesso, a differenza degli anni felici ch’era piuttosto grigia (…) è tutta luce, vita, gaiezza”. Nel leggere queste parole, si capisce una volta di più quanto ingiusta sia, in troppe occasioni, la sorte.

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