L'eruzione del Vesuvio nel 1820: ne è rimasta traccia nelle opere di Christian Dahl
Il 24 febbraio 1788 nasce Christian Dahl, oggi giustamente considerato uno tra gli esponenti più autorevoli del Romanticismo europeo. Un'occasione per ripercorrere la sua vita, le sue opere e il suo sguardo sul mondo
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Bergen, seconda città della Norvegia, collocata nel sud del paese, è denominata “la porta dei fiordi”, trovandosi a ridosso delle fenditure che, lungo la costa, permettono anche alle acque più rabbiose dell’Atlantico di incunearsi verso l’interno, sino a placare il proprio impeto. Qui, il 24 febbraio 1788, figlio di un pescatore, nacque Christian Dahl, oggi giustamente considerato uno tra gli esponenti più autorevoli del Romanticismo europeo. Non si può dire, dunque, che le umili condizioni familiari abbiano favorito il suo desiderio di avvicinarsi alla pittura. Quella in cui è cresciuto, infatti, non era una di quelle famiglie scandinave benestanti che compaiono in parecchi quadri del tempo, quasi sempre ritratte in eleganti e ordinati interni domestici. Meno che meno si può immaginare che particolarmente favorevole sia stato il clima artistico presente in quei luoghi, tale da giustificare il vigore con cui è germogliato il suo spirito creativo. Tanto è vero che un mentore (con qualche aggiustamento lessicale, si potrebbe dire un assistente sociale) si prese cura della sua crescita, indirizzandone le scelte, dopo averne valutato l’indole e il carattere.
Nonostante questo o, forse, proprio grazie a questo, dopo un primo tentativo andato a vuoto di farne un pastore protestante, una volta individuata la precoce predisposizione artistica che il giovane andava manifestando, quindicenne venne iscritto in una scuola di pittura e decorazione presente nella sua Bergen. I successivi furono passaggi biografici ancora più determinanti, ebbe, infatti, la fortuna di terminare gli studi presso l’accademia di Copenaghen, in Danimarca. A contatto con stimoli e sollecitazioni culturali di più ampio respiro, il suo istinto trovò modo di fortificarsi, raggiungendo una maggiore consapevolezza visiva. Fondamentale, ad esempio, si rivelerà l’incontro con le opere di Jacob van Ruisdael, il grande paesaggista olandese del Seicento, oggi da molti studiosi individuato come uno dei possibili precursori del Romanticismo pittorico. Lo guarderà e ne copierà i quadri, per memorizzare all’interno della sua tavolozza, atmosfere e intensità emotiva.
Qualche anno ancora, ed ecco che, nel 1818, lo troviamo a Dresda, città nella quale raggiunse una piena maturità, grazie anche al rapporto che qui riuscì a instaurare con Caspar David Friedrich. Un’impresa nell’impresa divenire amico del solitario Friedrich, già celebre e stimato, ma anche molto temuto dai contemporanei, sia per il carattere e sia per il rigore espressivo, volto a rappresentare la centralità di una natura sublimata dal “divino” che in essa si riflette, così da rinnovarne la grandiosità, l’incanto e la bellezza. Un desiderato isolamento quello di Friedrich: “Devo essere solo e sapere che sono solo per poter vedere e sentire pienamente la natura. Devo compiere un atto di osmosi con quello che mi circonda, diventare una sola cosa con le mie nuvole e le mie montagne per poter essere quello che sono”. Questo ci dice il grande pittore tedesco, chiedendo all’osservatore condivisione assoluta, al punto da invitarlo a entrare quasi fisicamente nell’opera. Non a caso, nella composizione, egli colloca quasi sempre le figure di spalle, così da permettere anche a noi di contemplare l’evento in “presa diretta”, quasi fossimo parte integrante del dipinto.
Anche Dahl, oltre a condividerne l’andatura emotiva e stilistica (“Friedrich ha le mie stesse idee sull’arte”), in alcune occasioni utilizza questo espediente, come nella tela Due uomini dove le figure sono inserite nella medesima posizione, dando così vita ad un enigmatico racconto notturno, rischiarato unicamente dal chiarore della luna. Radiografie esistenziali, quelle di Friedrich, maggiormente naturalistiche, quelle di Dalh.
A Dresda rimarrà per quarant’anni (vi morì nel 1857), però sarà grazie al ricordo dei territori montuosi della Norvegia, peraltro rivisti nel corso di numerosi viaggi, che la sua arte produrrà le opere migliori. Eppure, nel 1820, incurante del giudizio negativo di Friedrich - contrario alla consuetudine degli artisti di effettuare almeno un viaggio in Italia: “Tutto è sottoposto alla moda. Gli splendidi luoghi montani vengono abbandonati per recarsi a Parigi, e se riesce possibile si passa dall’Olanda o da Berlin per raggiungere Monaco, Vienna, Firenze, Roma e Napoli e qui a studiare gli antichi maestri nei musei e impadronirsi di uno stile nobile e di una bella maniera nell’ambito della pittura di paesaggio” - Christian Dahl parte e arriva nel nostro paese, effettuando più o meno il medesimo percorso: Monaco, Firenze, qualche mese a Roma, fino a giungere a Napoli, atteso dal principe Frederich, che gli aveva riservato una stanza all’interno della sfarzosa reggia di Quisisana, affacciata sul golfo ai piedi del Vesuvio. La luce è diversa, l’atmosfera è diversa. Incantevoli scorci: Castellammare di Stabia, gli scavi archeologici Pompei, Posillipo e Capri. Qui la sua pittura pare rasserenarsi, perdendo la positiva asprezza nordica, assai simile suo temperamento.
Proprio nei mesi della sua permanenza a Napoli, la sorte provocò l’eruzione effusiva del Vesuvio (un'eruzione effusiva-esplosiva si verificherà due anni dopo, nel 1822, mentre la più recente è del 1944). Dahl, tra i primi, si precipitò verso la sommità del cratere per ritrarre uno spettacolo di incomparabile coinvolgimento emotivo: perfetto per un pittore romantico. Non a caso, nel 1815, Turner dedicherà uno dei suoi dipinti più intensi all’eruzione delle Soufrièr Mountains in un’isola caraibica: anche se lui, a differenza di Dahl, quell’evento lo interpreterà utilizzando i numerosi resoconti del tempo.
Furono anni segnati da una sequenza impressionante di eruzioni: 1812, Mayon, nelle Filippine; il Soufriè, appunto; 1815, la devastante esplosione del Tamborra, durante la quale il cono della montagna passò da 4100 metri a 2850. Tutto questo lasciò sospeso nell’atmosfera terrestre e per parecchie stagioni un denso velo di polvere che, frapponendosi ai raggi solari, fu in grado di influenzare il clima, opacizzando la luce ma, in seguito, infuocando anche i tramonti. In quegli anni Lord Byron scrisse: “Ebbi un sogno che non era completamente un sogno. Il sole radioso si era spento (…) la terra era coperta di ghiacci” e poi “il mattino venne e svanì, ritornò senza portare il giorno”. Ed è per questo che il 1816 (solo quattro anni prima della presenza di Dahl a Napoli) fu chiamato l’anno senza estate.
Chissà se Cristhian Dahl, con la mente sempre tra i ghiacci e le frequenti piogge di Bergen, se n’è accorto.