L'artista che metteva le ombre in verticale: in Alberto Giacometti si riflette la fragilità umana e il valore del non definitivo
L'anniversario della nascita ci offre l'occasione per ricordare l'artista svizzero Alberto Giacometti. Così disse di lui il grande fotografo Henri Cartier-Bresson: "È uno degli uomini più intelligenti e lucidi che io conosca, di una grande onestà con se stesso e intransigenza nei confronti del suo lavoro: si accanisce sempre là dove maggiore è la difficoltà"
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Quando a Parigi, nel 1922, Alberto Giacometti si iscrive ai corsi di scultura di Émile-Antoine Bourdelle, ha poco più di vent’anni, essendo nato il 10 ottobre 1901. Svizzero della Val Bregaglia, prima di arrivarvi era sceso a Ginevra nel 1919, per frequentare l’Ecole des Beaux-Art e, per ben due volte, era stato in Italia, tra il 1920 e il ’21, fissando nella memoria immagini destinate a rimanere decisive per la sua ricerca espressiva: Venezia (“Ho passato le giornate a guardare soprattutto Tintoretto, non volevo farmene scappare nessuno”) e poi Firenze, Roma, Napoli, Pompei. A Padova e ad Assisi per Giotto. Si può forse dire che, al rientro da quei viaggi, egli decise di affidare a Giotto l’incarico di suddividere idealmente lo spazio e a Tintoretto quello di abitarlo. Suggestioni mai più rimosse e destinate a riemergere nella sua produzione matura, allorché, dopo aver tratteggiato i lineamenti dei suoi soggetti con linee filamentose, li collocherà all’interno di griglie prospettiche. La medesima cosa avverrà in scultura: la linea diviene impronta e lo sfondo si trasforma in piedistallo.
Parigi, l’Italia, Tintoretto, Giotto e tanti altri bagliori avrebbero però potuto condizionarne la passione se la sua terra d’origine non avesse formato in lui una sorta di scudo protettivo. Luoghi ritrovati nei mesi estivi e abitati per diciotto, decisivi anni: i primi della sua vita, più che sufficienti per forgiarne l’indole e il carattere. Siamo in Svizzera, dunque, appena oltre il confine italiano, nel cantone dei Grigioni, a Borgonovo, frazione di Stampa, poco meno di mille metri d’altitudine e 445 abitanti censiti a inizio secolo (circa seicento oggi). Disse: “Non potrei immaginare un’infanzia e una giovinezza più felici di quelle che ho vissuto”.
Senza scordare che, le prime esperienze artistiche le ebbe proprio tra le mura di casa, accanto al padre Giovanni, amico di Segantini e di Cuno Amiet, con il quale condivise la volontà di sviluppare in forma sintetica l’Impressionismo. “Imparai più da mio padre che in Accademia”.
Va detto che a Parigi il giovane Alberto ancor prima che un maestro – che pur trovò, come detto, in Bourdelle, apprezzato e autorevole allievo di Rodin – contava di trovare una via maestra, all’interno della quale far confluire i propri stati d’animo. Forse neppure lui immaginava che, a partire dal 1935, superata la stagione surrealista, sarebbe stato un viaggio solitario ed esterno a ogni impetuosa corrente. Un viaggio verso le origini, alla ricerca di una indefinibile verità: affermando nega, negando afferma. Alcuni filmati ci consentono di vederlo al lavoro, mentre modella l’argilla: osservandone le mani, si capisce come egli insegua una traccia: la vede solo interiormente eppure sa che esiste, contenuta nella materia ed è per questo che elimina tutto ciò che ritiene superfluo, scarnificando l’immagine e la forma. “Non ci riesco, non ci riesco” lo sentiamo ripetere mentre preme l’argilla.
In una lampada a olio, in uno sgabello, in una figura femminile allungata come un albero dei suoi boschi, in un volto scavato come una delle sue rocce, egli cerca il battito interiore. Un pensiero assoluto, poetico, esistenziale e, al contempo, ossessivo.
Incontrandolo, il grande fotografo Henri Cartier-Bresson, subito ne rimase affascinato e, oltre a lasciarci di lui alcuni scatti indimenticabili, dirà così: “Giacometti è uno degli uomini più intelligenti e lucidi che io conosca, di una grande onestà con se stesso e intransigenza nei confronti del suo lavoro: si accanisce sempre là dove maggiore è la difficoltà”. Egli osserva che persino il suo viso, segnato dall’intersecarsi delle linee, pareva inciso dalla punta di un bulino.
Sartre ne leggerà l’opera in chiave ovviamente esistenzialista: “Osservate come i molteplici tratti che egli traccia sono interni alla forma che descrive: guardate come rappresentano le relazioni intime dell’essere con se stesso. Tutte queste linee sono centripete: mirano a rinserrare, costringono l’occhio a seguirle e lo riconducono sempre al centro della figura”. L’essere e il nulla, reso con la sintesi che solo l’arte può produrre.
Opere che mai lo soddisferanno, testimonianti, prima di ogni altra cosa, il valore del non definitivo. Il vuoto, infatti, integra il soggetto come meglio non potrebbe, così come elementi fondamentali diventano l’imperscrutabile e il non raggiungibile. L’equilibrio convive con la precarietà. Sono veri e propri monumenti a ciò che è stato e a ciò che deve ancora arrivare, alla transitorietà di ogni singola esperienza: “Si pensa che io riduca le teste o che allunghi le mie figure di proposito. Le riduco e le allungo per rimanere fedele al modello (…) è sotto questa forma che mi appare la figura umana nello spazio”. Il vuoto, dunque, integra il soggetto e si fa, esso stesso, scultura e anche questo commuove chi le osserva.
Protetto dalle pareti del suo studio parigino di rue Hippolyte-Maindrom, proprio come nell’infanzia, quando immaginava di poter scavare un buco nella neve: “In superficie non si doveva vedere che un’apertura circolare, il più possibile piccola e nient’altro” o quando, sempre da bambino, stava ore in compagnia di pochi amici e del fratello Diego, nella cavità naturale posta alla base di un grande monolite.
Giacometti è l’unico scultore che, pur lavorando l’argilla, pare “non mettere, ma levare”. Una dopo l’altra, una vicina all’altra, nascono le sue esili figure, sostenute da piedistalli enormi. Ritenute a più riprese dalla critica primigenie e ancestrali, le sue immagini erroneamente possono dare l’idea di precedere ogni elaborazione culturale. Egli stesso scrive: “Ho capito veramente la grandezza dell’arte primitiva soltanto proseguendo le mie ricerche. Trovo che certi feticci dell’Africa o dell’Oceania abbiano molta più verità, siano molto più vicini a quanto cerchiamo di una scultura di Michelangelo o di Donatello”.
L’Homme qui marche - nella versione realizzata per un progetto (1959) che non andrà in porto e che prevedeva un gruppo monumentale da collocare di fronte alla sede della Chase Manhattan Banck di New York - è oggi forse l’immagine simbolo di Giacometti. Ancora una volta egli mette in verticale l’ombra: “Ho sempre l’impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che debbano contare su un’energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero”. Nel 1938 verrà investito da un’automobile e neppure il suo passo sarà più come quello di prima. Morirà a Coira, non lontano dai suoi boschi.