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Cultura

L'artista che entrava nel soggetti dando vita a opere mai viste prima. Claude Monet, cuore e anima dell’Impressionismo

Il primo obiettivo che Claude Monet si è posto è stato dare sostanza visiva a tutto ciò che in natura è inafferrabile. Nacque 184 anni fa a Parigi, il 14 novembre 1840: una ricorrenza che ci invita a ricordarlo

di
Silvio Lacasella
14 novembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Ricordare un grande artista nel giorno della sua nascita, così da festeggiarne idealmente il compleanno, concede a chi scrive il privilegio di poter ripercorrere parte del suo tragitto svincolando le parole dal rito della recensione. Un vero lusso. Capita addirittura, quando i pensieri imboccano una strada differente, di porre in secondo piano alcuni passaggi collocati a caratteri cubitali all’interno della biografia, spesso grazie alla loro sostanza letteraria, più che a quella artistica. Raccontati e riraccontati, con l’aggiunta di sempre nuovi particolari, tra le pagine dei romanzi, nelle trame cinematografiche o, in anni recenti, nei palchi di teatri sempre gremiti. D’altronde, formare una personale narrazione artistica è inevitabile nel momento in cui tratteniamo nel ricordo le immagini che più ci sono care, scordandone tante altre. Esiste una storia dell’arte e, non meno importante, un’arte fatta di storie.

 

Immaginare come sarebbero andate le cose, se la sorte avesse bloccato nel nascere alcune presenze straordinarie è un gioco che con fatica si può fare, per comporre scenari diversi. Però, in alcuni casi, l’assenza di un nome pare creare un vuoto davvero incolmabile: Michelangelo, ad esempio. Così come, ipotizzare lo sviluppo dell’arte contemporanea, sottraendo al suo sorgere Claude Monet, nato 184 anni fa a Parigi, il 14 novembre 1840, è una fantasia che non porta da nessuna parte. Egli, infatti, è una figura cardine del cambiamento. Decisivo è stato il ruolo svolto dalla sua pittura nel dare la spallata definitiva alle convenzioni ottocentesche, così da spalancare quel varco creato in precedenza da artisti quali Courbet o Manet, insostituibili anch’essi.


Prima di ogni altra considerazione, va ribadito che Monet non è solo il migliore degli impressionisti, egli è stato il cuore e l’anima dell’Impressionismo. Non è intercambiabile per una ragione molto semplice: l’Impressionismo, nel quale confluirono i pittori che sappiamo, molti dei quali di grandissima qualità espressiva, è Monet. L’ossatura centrale dell’intero movimento è la sua produzione. La parte più “interna” del “plein air” ha un solo nome: il suo.

 

Il primo obiettivo che si è posto è stato dare sostanza visiva a tutto ciò che in natura è inafferrabile. Anche Turner aveva compiuto al massimo livello questo sforzo, ma in Monet non c’è narrazione, solo contemplazione: c’è il ritmo della natura: il vento, la pioggia, la neve, la nebbia caliginosa del Tamigi, la condensa vaporosa che si alza dai campi alle prime ore del mattino, i toni dell’aurora o del crepuscolo colti nell’acqua o nella vegetazione circostante. Lo attraggono anche le lastre di ghiaccio, galleggianti sulla Senna nel momento del disgelo: anche in esse e nel loro lento avanzare vede riflettersi una luce destinate a sparire. L’acqua raramente è assente nei suoi dipinti; il variare delle correnti, le onde, la superficie increspata del mare. Tra i fiori, predilige il papavero, il più fragile dei fiori campestri, i cui petali paiono muoversi anche in assenza di vento, infatti conferiscono al dipinto una musicalità emozionante.


Si accorge con stupore che persino nella più tersa delle giornate la luce della Normandia è diversa da quella che illumina il cielo nel sud della Francia, ma non si dispera.

 

Prova a “classificarla”, quella luce, applicando un metodo di lavoro mai visto in precedenza, se non nel lontano Giappone, però con un afflato espressivo assai differente: ora siamo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, le stampe di Hokusay e Hiroshige avevano iniziato ad arrivare in Europa una quarantina d’anni prima. Monet le osserva incantato: nascono le “serie”. Dipinti realizzati in sequenza, per ritrarre il medesimo soggetto col variare della luce e delle stagioni.

 

Sin dai primi anni, a differenza dei suoi compagni di viaggio, non si pone davanti al soggetto, per cogliere con la destrezza dello spadaccino il variare improvviso dei toni, egli entra nel soggetto, stabilendo con esso una simbiosi assoluta: inumidito nelle vesti, con la barba imbiancata dalla neve; vi entra bagnato di pioggia, con la pelle screpolata dalla salsedine; entra in ciò che vede, e pur di riuscirci rimane per intere giornate a contatto con quanto vuole rappresentare. Ecco come nasce il suo andar per cicli, quello dedicato ai “Covoni”, poi la “Senna”, i “Pioppi”, le “Scogliere” della Normandia, il Parlamento di “Londra”, la facciata della “Cattedrale” di Rouen, i bianchi paesaggi della Norvegia e, ovviamente, per quasi trent’anni, in duecentoquaranta varianti, le famose serie delle “Ninfee”, coltivate nel giardino di Giverny.


Marcel Proust scrisse: “(…) giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c’è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c’è d’infinito – nell’ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo”. Parole perfette. Ottantaseienne, l’artista morirà proprio a Giverny il 5 dicembre 1926.

 

Monet, quindi, non è solo il padre dell’Impressionismo per aver titolato una sua veduta del porto di Le Havre, dipinta nel 1872: “Impressione, levar del sole”, offrendo così l’occasione, due anni dopo, a Louis Leroy, di etichettare sarcasticamente “impressionista” l’intera “combriccola” di trenta pittori che, in segno di sfida e ribellione nei confronti delle mostre dei Salon parigini, decisero di organizzare un’esposizione indipendente, nei locali del fotografo Nadar, in Boulevard des Capucines. Egli, fermo nei propositi e inesauribile nella ricerca, ne è sempre stato l’anima.


Per tornare alla luce: nel 1884 scopre la riviera ligure. La visita una prima volta in compagnia di Renoir e subito ne rimane affascinato. Infatti, al rientro già programma di ritornarvi, questa volta solo. Scrive a Duran-Ruel, il gallerista che lo aiutò a superare momenti di grande difficoltà economica: “Voglio passare un mese a Bordighera, uno dei luoghi più belli che abbiamo visto durante il nostro viaggio. Da laggiù nutro la speranza di portarvi tutta una serie di cose nuove. Perciò vi prego di non parlare a nessuno di questo proposito”.

 

Un soggiorno, come sempre, all’insegna del lavoro, col cavalletto puntato verso le palme (una pianta che “tanto lo fa dannare”), verso gli ulivi oppure al centro del rigoglioso parco del signor Moreno e, naturalmente, in direzione del mare. A volte però si gira e, a pochi chilometri, trova Dolceacqua, col suo esile e arcuato ponte. Più in là ancora il suo sguardo incontra i rilievi che, nell’entroterra, si alzano rapidamente, seguendo la Val Nervia, col Pietravecchia e il Monte Toraggio ben stagliato sullo sfondo, in una tra le opere più riuscite, tra le oltre quaranta prodotte durante quel soggiorno. I rilievi, specie quelli a strapiombo sul mare, ispireranno molte sue opere in tanti altri momenti, creando un’armonica contrapposizione tra la solidità della roccia e la trasparenza delle acque sottostanti, quasi sempre distese verso l’orizzonte. Ma questo è un capitolo che non va riassunto velocemente: sfidando la fuggevolezza della vita, gli dedicheremo la giusta attenzione il 14 novembre del prossimo anno.

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