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Cultura

Il padre, Luigi, scoprirà del suo matrimonio dopo tre anni: Fausto Pirandello, un artista capace di uscire dall'ombra di un premio Nobel

Il 17 giugno 1899 nasce Fausto Pirandello, artista dal carattere appartato, introverso, avvitato ai propri convincimenti, riflessivo ma interiormente tumultuoso, esigente con gli altri e con se stesso. Al punto che pare essere stato, quel carattere, uno strumento indispensabile per rafforzare tutta la sua pittura

di
Silvio Lacasella
17 giugno | 12:16
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

L’arte dimostra che il talento - quello che incanta l’osservatore - non è una pianta coltivabile in giardino. La sorte, infatti, sceglie per suo conto, quasi sempre senza una ragione precisa, facendo partire alcuni avvantaggiati. Però è anche vero che, se non viene nutrito, esso è condannato a spegnersi presto o a trasformarsi in sterile virtuosismo. Non basta, dunque, aver talento: chi si esprime attraverso l’arte deve essere in grado di elaborare all’interno del pensiero una serie di consapevolezze, così da condensare in ciò che va rappresentando, stati d’animo altrimenti inesprimibili. Niente di nuovo, sono cose che sappiamo.

 

La storia dell’arte, quasi a voler sottolineare l’imprevedibilità geografica del talento, in molti casi ha pensato di indicare, accanto al nome dell’artista, il suo luogo di provenienza: uno per tutti Vinci, in provincia di Firenze: non so in quanti l’abbiano visitata, però è universalmente conosciuta grazie a Leonardo. Ma la lista è lunghissima e sarebbe impossibile completarla: da Antonello da Messina a Cima da Conegliano, da Daniele da Volterra a Gentile da Fabriano, da Pietro da Cortona a Tino da Camaino e molti, davvero molti altri ancora.

 

Vi sono poi località geografiche “minori” che, per merito della loro forza attrattiva, hanno saputo stanare dalle città in cui erano necessariamente confluiti, artisti “maggiori”, creando così piccole comunità creative capaci di fortificare un sentire comune. Esperienze estremamente significative: la scuola di Barbizon è una di queste. Ma anche nel Sud della Francia o in Bretagna si sono scritti capitoli emozionanti e decisivi. Qui da noi, in misura diversa e per fare solo due esempi, la scuola di Posillipo, agli inizi dell’Ottocento o, giusto un secolo dopo, i pittori giunti a Burano, tra i quali Gino Rossi, che, prima di giungervi, aveva soggiornato due volte in Bretagna.

 

Una storia di assoluto rilievo, anch’essa iniziata nei primi decenni dell’Ottocento, è quella di Anticoli Corrado, paese molto suggestivo arroccato su un rilievo che supera di poco i cinquecento metri, scoperto da pittori e scultori in gran parte provenienti dal Nord Europa. Posto a una sessantina di chilometri ad est di Roma, lungo la Valle dell’Aniene, i suoi residenti oggi pare siano 820 (erano oltre duemila nel 1910). Non molti, dunque


Dallo scoppio della Prima Guerra mondiale, ad Anticoli Corrado, soggiornò a lungo Felice Carena e, a partire dal 1922, nei mesi caldi vi giunsero Emanuele Cavalli, Onofrio Martinelli, Giuseppe Capogrossi. Il 1924 segna la presenza anche di Arturo Martini, incaricato di realizzare una fontana per la piazza principale del paese. Nel frattempo, aveva iniziato ad intrecciare con Anticoli Corrado fili biografici resistenti anche Fausto Pirandello, nato giusto 125 anni fa, il 17 giugno 1899. Tanto è vero che vi aprì il suo primo studio di pittore, nel ’24: lo stesso anno in cui incontra Pompilia D’Aprile, modella di tanti artisti e che sposerà nel 1927.

 

Facile certo non deve essere stato Fausto Pirandello, con quel suo carattere appartato, introverso, avvitato ai propri convincimenti, riflessivo ma interiormente tumultuoso, esigente con gli altri e con se stesso. Al punto che pare essere stato, quel carattere, uno strumento indispensabile per rafforzare tutta la sua pittura. D’altronde, egli stesso arrivò ad averne consapevolezza quando con l’andar degli anni, in previsione di un’autobiografia che non riuscirà però a completare, scrisse tra i suoi appunti: “Niente altro che piccole impertinenze le mie. Gentili impertinenze. Mi si vede dal viso. Un viso capace di piccole e gentili impertinenze all’ombra di un naso proteso, sotto il lume di occhi blandi, soffusi e, quando mai, nelle rare mattane, più che vivaci inquieti”, oppure in una successiva, peraltro bellissima confessione: “Devo chiedere scusa ai miei figli di averli confusi con me stesso. Li trattavo come trattavo me stesso: e so ora - lo capisco tardi - di essermi sempre trattato male”.


Fatto è che il giovane Fausto si trovò costretto a fronteggiare da subito, senza mostrare cedimenti, la forte personalità di un padre già celebre che, oltre a desiderarlo in cuor suo scultore, non ne condivideva le eccessive inquietudini: “Bisogna che tu vinca questa scontentezza di te, e l’unico mezzo di vincerla è di liberarti di tanti sterili tentativi” (1928). Un rapporto non semplice, destinato oltretutto a trascinarsi nel tempo. Si pensi che quando, qualche mese prima di morire (1936), due anni dopo aver ricevuto il premio Nobel, Luigi Pirandello si recò a trovare il figlio ad Anticoli Corrado, seduto accanto al cavalletto, ancora trovò il modo di dirgli: “Vedi tu stai facendo un errore estetico. Quel verde è troppo verde”. Lo diceva ad un pittore che, a quella data, aveva esposto a Biennali e Quadriennali, era stato a Parigi e aveva già compiuto trentasette anni.

 

Molti sono i critici che ne hanno acutamente letto l’opera. Le parole di Fabrizio D’Amico, scritte nel 1986, tornano ora utili per capirne, con la pittura, l’indole: “Non fu dunque Fausto Pirandello un 'isolato', come troppe volte s’è detto. La sostanziale estraneità dal contesto in cui operava egli se la scavò attorno volontariamente, coscientemente e forse - dato che il carattere, quello sì, non era facile alle vicinanze e alle complicità - anche dolorosamente; e fu un’indipendenza soprattutto di lingua, di 'stile' se si vuole”.


Durante il suo lungo soggiorno parigino, dalla fine del ’27 al ’30, Prandello dipinge opere importanti: vede Picasso, anche se a colpirlo saranno soprattutto Braque e Derain, scorda i pittori che lo influenzarono agli esordi, come Spadini e Carena. Si accosta al gruppo degli “Italiens de Paris”, tra i quali Severini, De Pisis, Tozzi, Campigli, De Chirico, Savinio. Osserva, elabora. Riflette sulla metafisica e persino sul surrealismo. Ma è la rivoluzione cubista a rivelargli un modo diverso di vedere le cose. Un gorgo dal quale non vorrà più uscire.

 

Il rientro in Italia coincide con gli anni Trenta, quelli della maturità: il contatto con la Scuola Romana, con Mafai più che con Scipione. Le brevi apparizioni col gruppo milanese di Corrente. Tornato in Italia, ufficializzerà in famiglia, dopo tre anni, il suo matrimonio, fino a quel momento tenuto segreto, pur essendo nel frattempo nato Pierluigi, il primo dei suoi due figli.

Non cerca Pirandello un’eleganza compositiva. Nel rappresentare la figura insegue ardite fughe prospettiche, ma trova la “verità” anche in un paio di guanti, in una scatola di fiammiferi, in una gabbia vuota o tra le lische di un pesce. Rappresentandoli, la materia pittorica, talvolta, alza vistosamente il suo spessore, formando strani gonfiori. Una materia che si fa carne, proprio come, in anni successivi, accadrà in  Lucian Freud, al quale in più di un’occasione e a ragione, è stato avvicinato.


Sarà così sino alla fine, anche quando l’impianto compositivo sembra lasciare posto all’astrazione. Sarà così anche quando la pennellata diverrà più fluida, prendendo il posto della spatola: “quando dipingevi con la cazzuola”, ricorderà Virgilio Guzzi. Sotto all’apparenza, sotto all’epidermide delle cose e del tempo, è lì che si fissa la pittura di Fausto Pirandello. Dolente elegia del mistero che ci circonda.

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