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Cultura

Il nazismo cercò di utilizzarlo per esaltare le peculiarità germaniche della sua pittura. Ma in Caspar David Friedrich troviamo dipinto ciò che non è raggiungibile

Duecentocinquanta anni fa, il 5 settembre 1774, Caspar David Friedrich nacque a Greiswald, piccolo centro della Pomerania, ora tedesca, a quel tempo svedese. “Il pittore non deve dipingere solo quello che vede davanti a sé, ma anche quello che vede dentro di sé. E se in sé stesso non vede nulla, smetta di dipingere anche quello che vede davanti a sé”

di
Silvio Lacasella
05 settembre | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Perderemmo la sostanza poetica di Caspar David Friedrich (1774-1840) se ci avvicinassimo alle sue opere senza aver prima attraversato con la mente l’epoca in cui furono dipinte. Opere il cui battito interiore è armonizzato da un forte sentimento religioso, trasmessogli dal padre di stretta osservanza luterana. Aiuterebbe, inoltre, conoscere le drammatiche vicende personali che in giovane età segnarono in modo decisivo il carattere dell’artista.

 

La riconoscibilità del soggetto, descritta con lenticolare precisione, induce invece molti ad avvicinare la sua arte, immaginandola di facile lettura, magari utilizzando i quadri come specchi capaci di attrarre al proprio interno chi li osserva con la speranza di estraniarsi dal presente.

 

Tra le pagine della storia dell’arte oggi Friedrich è un imprescindibile punto di riferimento: lo è anche per chi ne travisa la forza evocativa. Quello che andrebbe sempre ricordato è che la sua celebrità è tutto sommato recente: subito dopo la morte, infatti, le sue opere, già parecchio trascurate, precipitarono nel buio più totale. Come sempre, Roberto Tassi ci aiuta a capire: “Era comunemente accettata fino a qualche tempo fa, e in alcune zone culturali lo è ancora, la convinzione, divenuta poi schema storico, secondo la quale il Romanticismo tedesco ha dato i suoi maggiori, e forse unici, risultati, nella poesia o nella letteratura in genere, e nella musica. Ne risultava nei confronti della pittura un pregiudizio di cui nessuno aveva mai tentato di dimostrarne la sostanziale falsità”.

Quando, finalmente, agli inizi del Novecento, la critica decise di osservarne la qualità con occhi diversi, la rivalutazione storico artistica fu immediata. Tanto è vero che il suo nome, assieme a quello di Turner, è ora citato quale massimo rappresentante del Romanticismo pittorico, in compagnia di filosofi, scrittori e poeti, quali Novalis e Leopardi o dei molti musicisti che trovarono le giuste note per diffondere il valore di un movimento culturale che andava estendendosi in tutta Europa, ma assai difficile da definire: Schubert, Chopin, Listz e tanti altri. Autori la cui diversità ha contribuito a rafforzare il comune desiderio di restituire alla natura la superiorità che le spetta, placando l’euforia dell’Illuminismo.

Un nuovo duro colpo Friedrich lo subì negli anni Trenta, quando il nazismo cercò di utilizzarlo per esaltare le peculiarità germaniche presenti nella sua pittura: in quel momento si posò su di lui una nuova ombra difficile da rimuovere. Anche oggi Friedrich rischia di essere trascinato in un terreno che non gli appartiene, quale illustre esponente del filone estetico gotich, intriso di solitudine e vampiresca desolazione: per le sue albe boschive, per le numerose croci piantate tra i sassi (se ne contano quaranta), per le sagome raffigurate in controluce, per i corvi o altri uccelli notturni, per le pietre sepolcrali, per le querce e per i grandi alberi rinsecchiti; per i relitti di navi portate verso riva dalla violenza di un mare che ha placato la sua rabbia. Molti relitti e molte chiese diroccate, rischiarate solo dal pallore di una luna scesa nel retro di un monte o che, alta nel cielo, buca le nuvole, riflettendo la sua luce nelle acque del Baltico. Il pensiero subito corre ai versi di Novalis: “Dolcemente stregata la notte / nei suoi sentimenti pascola la nostalgia”.

La fragilità degli elementi che Friedrich va rappresentando è la fragilità dell’uomo. L’artista ne è consapevole, infatti, quando nel dipinto inserisce la figura la pone di spalle: “Ruckenfigur”. Così facendo, concede all’osservatore la possibilità di collocarsi, non solo idealmente, ma anche fisicamente davanti alle sospese atmosfere di quei paesaggi. In sostanza, Friedrich ci invita a guardare, rendendoci partecipi del medesimo suo senso di smarrimento, di umana “finitudine” di fronte alla grandiosità di una natura che, per effetto di contrasto, indica la nostra diversa misura. D’altronde, egli sa perfettamente che in qualsiasi altura, noi come lui, ci sentiamo: “Viandanti in un mare di nebbia”. Le menti più sottili ne intuirono subito il valore (Goethe, ad esempio), però la maggioranza dei suoi contemporanei considerò eccessivo quel bisogno di confrontarsi sempre con l’“assoluto”, cogliendo solo pellicola esterna di quei dipinti.

Duecentocinquanta anni fa, il 5 settembre 1774, Caspar David Friedrich nacque a Greiswald, piccolo centro della Pomerania, ora tedesca, a quel tempo svedese. Nel 1790 segue i corsi del suo primo maestro, Johann Gottfried; quattro anni dopo si iscrive all’Accademia d’Arte di Copenaghen. Nel 1798 il definitivo trasferimento a Dresda. Il Romanticismo rimarrà in lui espressione di una cultura nordica mai stemperata nel tepore della luce mediterranea, a differenza di quanto fece Turner. Questa sua fedeltà “territoriale” fu intesa come un irrigidimento espressivo. Ludwig Richter, contemporaneo di Friedrich, nel commentare i suoi dipinti scrisse: “Traspare quella malinconia malata, quell’eccitazione febbrile che commuove fortemente qualunque osservatore appassionato, ma che produce sempre una sensazione di sconforto. Questo non è il carattere, lo spirito e il significato della natura, ma è qualcosa di artificioso. Egli ci lega ad un pensiero astratto, usa le forme della natura soltanto in un senso allegorico, come segni e geroglifici che devono avere un significato particolare, ma in natura ogni cosa parla per sé”.

Accusare Friedrich di “inverosimiglianza” contribuì a sminuirne la ricerca espressiva. L’intera sua pittura, pur sorretta da un bisogno di riconoscibilità assoluta, trova nutrimento e sostanza nella forza evocativa della rappresentazione. Lo pensa e lo dice lui stesso: “Il pittore non deve dipingere solo quello che vede davanti a sé, ma anche quello che vede dentro di sé. E se in sé stesso non vede nulla, smetta di dipingere anche quello che vede davanti a sé”.

In questi itinerari visivi, tratteggiati dalla mente, l’artista vuole che venga riconosciuto ogni minimo particolare. Ci invita a perlustrare, all’interno di quei territori, il suo animo, non come viaggiatori ma come “viandanti” appunto.

Nel contrapporre la vastità incommensurabile del non raggiungibile al valore non meno decisivo del dettaglio, elimina le parti intermedie, producendo due risultati: ciò che è lontano ancor più si allontana, e il primo piano si avvicina.

In pochi casi le vedute trovano una riconoscibilità geografica, quella che va raffigurando è una condizione di appartenenza che travalica il singolo luogo. Il pittore norvegese Dahl, trasferitosi a Dresda (dal 1823 abiterà nello stesso caseggiato di Friedrich) scrisse: “La maggior parte ha visto in lui soltanto un misticismo ricercato e innaturale, ma ciò è sbagliato”. Col proprio isolamento, egli pare far sua la sordità di Goya o di Beethoven: “Devo essere solo e sapere che sono solo per poter vedere e sentire pienamente la natura. Devo compiere un atto di osmosi con quello che mi circonda, diventare una sola cosa con le mie nuvole e le mie montagne per poter essere quello che sono”.

Molti, dunque, saranno i paesaggi crepuscolari o notturni dipinti da Friedrich. Tra il 1823 e il ‘24, però, rischiarato da una luce diurna, il grande artista tedesco dipinge uno dei suoi capolavori, esposto alla Kunsthalle di Amburgo, il “Naufragio della speranza”: ammassate al centro della tela, si vedono innumerevoli scaglie di ghiaccio appuntite, una sopra l’altra, in forma piramidale. Della nave, sulla destra, si scorge solo una parte del relitto. Qualcosa, nell’impianto compositivo, ricorda la “Zattera” di Gericault (1818-19), la luce è però completamente diversa e poi non c’è la disperazione dei sopravvissuti, ma solo silenzio.

Dare forma al silenzio, all’assenza, trasmettere il sentimento che crea tutto ciò che non è raggiungibile: questo ha cercato di rappresentare Friedrich per tutta la vita. Un pensiero elaborato interiormente ancor prima di avventurarsi nei luoghi della pittura, quando a sei anni perse la madre o quando, tredicenne, rischiò di morire annegato per la rottura del ghiaccio su cui stava pattinando: in suo aiuto accorse il fratello, che nel salvarlo scomparve tra le acque.

 

Malato e in povertà, nel 1840, qualche settimana prima della morte, l’artista ricevette la visita del poeta russo Vassili Zukovski, il quale poi annotò tra le sue carte queste poche parole: “Da Friedrich. Triste rovina. Piangeva come un bambino”.

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