I suoi articoli avevano segnalato i pericoli della diga e fu invece denunciata. Storia di Tina Merlin: dalla Resistenza al Vajont fino alle steppe della Russia
Il 19 agosto 1926 nasceva la grande giornalista Tina Merlin. In occasione dell'anniversario abbiamo deciso di dedicarle la giornata di oggi con articoli, approfondimenti e ricordi. Mario Rigoni Stern scrisse di lei: "(...) una donna che non ha voluto restare serva, che non ha voluto restare ignorante, che non ha voluto tacere. E che ha sempre lottato contro ogni fascismo. Anche per la nostra dignità"
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Tina Merlin, giornalista e scrittrice, aveva denunciato per tempo i rischi del Vajont e le malefatte della SADE (Società Adriatica di Elettricità), una potenza economica che condizionò per decenni governi e autorità. I suoi articoli avevano segnalato gli abusi e avvertito del pericolo, ma non venne ascoltata; fu invece denunciata e processata per aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».
Il 9 ottobre 1963 duemila vite sono spazzate via da una tragedia tanto terribile quanto prevedibile. Molti in Italia aprirono gli occhi sulle conseguenze di un uso dissennato del territorio, altri continuarono ad anteporre i propri interessi, altri ancora preferirono chiudere gli occhi. Un Paese dalla memoria corta il nostro.
Tina era nata il 19 agosto 1926 a Trichiana nel Bellunese. Era cresciuta in povertà insieme ai suoi fratelli e sorelle. Fin da piccoli, dopo la quinta elementare, si erano trasferiti in città lontane per lavorare: lei e la sorella Ida a Milano, i fratelli Toni e Remo in Piemonte come braccianti tuttofare e casari. Tina è poco più di una bambina quando presta servizio in case altrui. Le resterà impresso quello svolto in una famiglia milanese tanto ricca quanto ignorante e poco garbata: lei sopporta, stringe i denti, e di notte legge. Non si lamenta ma non dimenticherà mai l’umiliazione di essere trattata come un essere inferiore solo perché nata povera. Forse proprio in quei giorni matura quel desiderio di giustizia che l’accompagnerà per tutta la vita.
Tina a 9 anni con la sorella Ida alla finestra di casa a Trichiana. Per gentile concessione di Toni Sirena, figlio di Tina Merlin
Toni ha un carattere vivace, forte e libero; in una famiglia e in un contesto severi nei riguardi del genere femminile, è l’unico a trattarla alla pari, le ripete spesso di non farsi condizionare da regole sociali e vincoli di appartenenza: «Il tuo giudice è la tua coscienza». Remo, molto più grande di lei, ha una sicurezza serena che la fa sentire protetta; quando, prima il lavoro e poi la guerra, lo spingeranno verso paesi lontani, invierà alla famiglia lettere affettuose e scritte con cura.
Dopo l’8 settembre 1943, Toni va sulle montagne con i partigiani, presto seguito da Tina, che si unisce a loro come staffetta; sarà ucciso dai tedeschi in ritirata in uno degli ultimi giorni di guerra. Remo era scomparso in Russia due anni prima, alla fine di gennaio del 1943: uno dei tanti alpini dichiarati dispersi in quella criminale guerra di aggressione che costò la vita a oltre 70.000 italiani. Per molto tempo Tina e i suoi famigliari sperano di vederlo tornare dalla prigionia, o almeno di sapere dove e come si fosse chiusa la sua breve vita.
Una famiglia spezzata e ferita senza rimedio, sua madre un giorno le dirà: «Tu e Ida non volevate proprio fare le serve. Eravate ostinate, non accettavate le differenze. Ma allora era così. Così era anche per i vostri fratelli. Se non morivano in guerra – e nel dirlo le trema la voce – anche loro sarebbero riusciti a migliorare».
Tina con il marito Aldo Sirena, l'ex comandante partigiano Nerone. Per gentile concessione del loro figlio Toni
Nel dopoguerra c’è da lottare per trovare un lavoro, per sopravvivere e per garantirsi un futuro. Tina, che nel 1949 ha sposato l’ex comandante partigiano «Nerone» Aldo Sirena, diventa corrispondente da Belluno del giornale l’Unità. Scrive articoli ma anche racconti partigiani, pubblicati nel 1957 in un libro dal titolo Menica, il nome di una donna che aveva combattuto durante la Resistenza. Il suo stile è sobrio e preciso, si distingue per la capacità di documentare e approfondire i problemi, la passione civile acuisce la sua abilità nel cercare e raccontare le notizie; diviene una vera e propria giornalista d’inchiesta. Anche nei giornali però le donne non hanno vita facile, passeranno molti anni prima di essere assunta in modo stabile.
Lo sviluppo delle centrali elettriche e delle dighe negli anni Cinquanta sembra una fonte strategica di modernità, benessere e lavoro per tutti. In realtà, tante valli e tanti paesi in Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto e Friuli vengono devastati e inariditi: i terreni dei contadini sono espropriati per pochi soldi, le colture e i pascoli abbandonati, un patrimonio di abilità e di competenze, artigiane e agricole rischia di andare perduto. Tina lo comprende subito, è una ragazza innamorata della libertà e delle sue montagne, non per passione alpinistica bensì per la consapevolezza, rara allora, che solo salvaguardando la qualità della vita e il lavoro delle comunità locali si sarebbe potuto dare un futuro a quel mondo, povero ma pieno di dignità. Ben prima del disastro del Vajont, in un articolo del 24 maggio 1955 aveva scritto: « I danni causati dalla Società elettrica all’economia montana sono nella nostra provincia incalcolabili proprio perché gli impianti sono stati effettuati nei luoghi più floridi e redditizi, già così pochi nella nostra provincia, togliendo ai montanari che vivono del raccolto, dei boschi e dei campi, l’unica risorsa di vita. Non solo, ma i terreni espropriati vengono pagati ad una quota irrisoria dal monopolio elettrico il quale ricava miliardi ogni anno dallo sfruttamento dei numerosi corsi d’acqua della provincia ».
Tina Merlin intervista Armando Da Roit, detto il Tama, noto alpinista agordino, davanti al rifugio Vazzoler, nel gruppo del Civetta. Per gentile concessione del figlio di Tina, Toni Sirena
Alla speculazione e alla corruzione, alla costruzione di una diga e di un invaso che ignora sostanzialmente le regole della geologia, a uno strapotere politico-economico che zittisce le critiche con slogan modernistici e ricatti occupazionali, seguono presto lo sconvolgimento di montagne e paesi, e rischi concreti di un’immane devastazione.
In un articolo del 21 febbraio 1961 Tina avverte: «Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schianto».
Non viene ascoltata, resta anzi isolata: le critiche documentate vengono derubricate a speculazioni politiche antigovernative e, come avviene spesso nel nostro Paese, ignavi e cortigiani corrono in soccorso del vincitore di turno. La SADE, grande industria legata sin dall’inizio al potere politico (Giuseppe Volpi, il suo creatore, fu ministro delle Finanze di Mussolini dal 1925 al 1928 e Vittorio Cini, presidente dal 1953 al 1964, fu ministro delle Comunicazioni nel 1943), promette sorti magnifiche e progressive, sviluppo, modernità e lavoro; le voci contro di esperti e di tecnici sono «fastidiosa burocrazia intellettualoide», quelle dei contadini sono «passato che non si rassegna a lasciar passare il progresso».
E si arriva alle 22.39 del 9 ottobre 1963: il monte Toc frana sul lago artificiale del Vajont sollevando una montagna d’acqua che investe Longarone, altre onde portano morte e distruzione nei paesi di Erto, Casso, San Martino e Spesse. Si conteranno quasi 2000 vittime.
Dopo la tragedia Tina scrive per aiutare i sopravvissuti e denunciare i responsabili, finendo per essere isolata oltre che accusata di sciacallaggio da illustri colleghi che nulla avevano capito o voluto capire di quell’immane disastro. Lo evidenziò lei stessa: «I soprusi, le prepotenze della società elettrica erano, come si dice, il pane quotidiano di ogni giornalista che avesse voluto parlare di ciò che stava a cuore ai montanari di queste vallate. Chiunque faceva questo mestiere avrebbe potuto scrivere le stesse cose. Non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui».
Quando, negli anni Settanta, cercherà di pubblicare un libro sulla storia del Vajont, molte case editrici e gruppi giornalistici le chiusero la porta in faccia, altri temi contingenti vennero ritenuti più interessanti del racconto di sciagure passate. Il suo libro verrà pubblicato solo nel 1983, presso la piccola casa editrice La Pietra di Milano: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont. Sarà poi più volte ristampato presso altri editori.
La storia di quella catastrofe è stata raccontata magistralmente in quest’opera e nei suoi articoli, e a teatro, molti anni dopo, da Marco Paolini.
Scrivere per Tina Merlin era un lavoro serio, da svolgere con autonomia e libertà, e un dovere civico: raccontare i fatti era per lei un modo per non dimenticare le vittime e un monito per il futuro, ad essere meno cinici e avidi, meno superficiali e ignoranti. Chi ama davvero la propria gente e il proprio ambiente, storico e naturale, non stia alla finestra, ne abbia cura e li difenda.
Per anni, la scomparsa del fratello Remo era rimasta una ferita aperta ma inevitabilmente sopita negli anni delle appassionate battaglie civili e giornalistiche. Tina sapeva solo quello che aveva raccontato un suo commilitone che, sopravvissuto alla ritirata, si era recato a Trichiana dalla famiglia Merlin chiedendo di Remo. Sconfortato nell’apprendere che non se ne avevano notizie, si era chiuso in un silenzio cupo ma, pressato dalle domande, aveva poi raccontato: «Eravamo accerchiati un’altra volta, tutti cercavamo di scappare. Dissi a Remo di sbrigarsi, di seguirmi per tentare una via di fuga. Mi rispose: tu vai, io non me la sento più di scappare, resto qui e mi do prigioniero. Però – aggiunse sottovoce come parlando fra sé – speravo lo stesso che avesse cambiato idea all’ultimo momento e ce l’avesse fatta a tornare ».
Nel 1969, un libro porta nuovi elementi di conoscenza. Rocco Rocco, ufficiale medico del Val Piave, il battaglione di Remo, pubblica un’accurata opera di memorialistica, La razione di ferro, dove, rievocando la ritirata di Russia del battaglione, scrive che tra il 17 e il 19 gennaio 1943 molti alpini del Reparto munizioni e viveri erano stati uccisi in combattimento a Mariewka, un piccolo paese della steppa, tra questi il caporal maggiore Remo Merlin. Il libro di Rocco è l’unico documento che riporti notizie del fratello, poche ma comunque un riferimento concreto (a pag. 221), e un accenno a quel drammatico scontro si legge anche a pagina 90).
Sino agli anni Settanta è quasi impossibile recarsi in Russia, per la chiusura all’esterno imposta dal regime sovietico. Tina dovette attendere, anche per motivi economici, fino al 1985, quando accompagnò in quel Paese lontano una comitiva di reduci e di famigliari di caduti e dispersi. Il gruppo di testate giornalistiche – Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia – la incaricò altresì di scrivere un diario di viaggio.
L’emozione dei reduci nel rivedere i paesi della ritirata si trasmette a tutti: sopportano quindi con pazienza le visite celebrative e obbligate a fabbriche e musei e si commuovono ogni volta che un gruppo di case, un paesaggio, un incontro inaspettato con chi “si ricorda” fanno rivivere la paura e l’orrore vissuti in Russia tanti anni prima, ma anche brevi momenti di spensieratezza giovanile. Tina prova emozioni inaspettate; tra l’altro nel gruppo c’è l’alpino Trevisson, l’ultimo a vedere in vita suo fratello, nel paese di Carkovka. Non trova però tracce di Remo Merlin, caporalmaggiore, Reparto munizioni e viveri del gruppo Val Piave, 3° Reggimento artiglieria da montagna, Divisione Julia. I reportage dalla Russia sono incalzanti e antiretorici, fanno parlare i fatti e i testimoni. Sono raccolti nel libro La rabbia e la speranza. La montagna, l’emigrazione, il Vajont, pubblicato nel 2004, che raccoglie il meglio dell’attività giornalistica di Tina Merlin.
Tina Merlin e Mario Rigoni Stern negli anni Sessanta. Per gentile concessione del figlio di Tina, Toni Sirena
Dopo quel viaggio non cessa di indagare per saperne di più sul destino del fratello, anche perché mentre scrive l’ultimo libro di memorie giovanili e di Resistenza (La casa della Marteniga) tornano alla mente ricordi e affetti. Si rivolge per un giudizio a Mario Rigoni Stern, a cui è legata da sentimenti di stima e di amicizia, e questi, dopo averlo letto e apprezzato quelle pagine, si rivolge a Roberto Cerati dell’Einaudi, a Cesare De Michelis della Marsilio, alla Garzanti e ad altri, per farlo pubblicare. A De Michelis, in una lettera del 3 agosto 1989, Rigoni scrive: «Ho letto questa storia della Tina Merlin e più di una volta sono stato preso dalla commozione. Per me è un libro che si deve stampare e che le nuove generazioni devono leggere». Sul tema della Resistenza, negli anni Sessanta, erano stati pubblicati capolavori come I piccoli maestri di Luigi Meneghello, Una questione privata di Beppe Fenoglio e I giorni veri di Giovanna Zangrandi, ma nella seconda metà degli anni Ottanta l’interesse, almeno in ambito letterario, pare scemato, e nessun editore si dichiara disponibile a pubblicare i racconti della Merlin.
Nel 1990, Tina decide di mollare ogni altra cosa, libro compreso, e tornare in Russia, stavolta con maggiore autonomia negli spostamenti, accompagnata dal marito e da alcune amiche. Prima di partire si reca ad Asiago da Mario Rigoni Stern e gli chiede aiuto per trovare il piccolo gruppo di isbe dove Remo era scomparso. Rigoni le mostra piantine topografiche, le indica il tracciato della ritirata del Val Piave e il piccolo paese di Mariewka, e la mette in contatto con Alim Morozov, lo studioso che aveva aiutato lo stesso Rigoni a ritrovare il suo caposaldo sul Don e che aveva creato un piccolo museo della guerra a Rossoch.
Così Rigoni Stern mi raccontò quel loro incontro: «Cercai di ricostruire il percorso fatto dal 3° reggimento artiglieri della Julia dove lui era inquadrato. A un certo momento il suo reparto era sbandato e non se ne era saputo più nulla. Era arrivato in un paese ed era scomparso. Mi sono segnato il nome di quel paese e le ho raccomandato di andare prima a Rykovo e poi a Rossoch, e lì di chiedere di Morozov, di dirgli che la mandavo io e di farsi prestare un’auto. Il paese era minuscolo, quattro isbe a circa 70 chilometri da Rossoch. Lei ha incontrato Morozov, lui le ha trovato un’auto e un contadino per farle da autista. Mi ha detto poi che arrivata al paese sentì forte il ricordo, la presenza del fratello, e pianse. Sulla porta di un’isba c’era una vecchia, seduta su una panca. La chiamò e la fece sedere accanto a lei, non sapeva l’italiano ma riuscì a farsi capire: una notte di gennaio erano arrivati lì gli italiani e si erano fermati a riposare nelle isbe. Durante la notte i russi attaccarono con i carri armati, gli alpini uscirono fuori dalle isbe, e … non si salvò nessuno. Era il 20 gennaio del 1943. Tornata dalla Russia, Tina venne qui a casa mia a raccontarmi questa storia. “Adesso posso anche morire Mario”, così mi disse. Fu l’ultima volta che la vidi. Era brava, la trattarono male ai tempi del Vajont, le fecero causa: una grande industria contro una povera giornalista …Era brava, era così la Tina».
Ferita dal tono sbrigativo di alcuni dinieghi a stampare il suo libro, Tina il giorno di Natale del 1990 scrive a Rigoni: «Sono amareggiata. Comunque adesso non ho tempo per altro se non per curarmi. Nei giorni scorsi mi hanno diagnosticato un tumore a un polmone. Il 27 inizio un ciclo di terapie che mi arrecherà disturbi e durerà a lungo». Un anno dopo muore a Belluno.
Nel 1993 Rigoni, insieme ad altri, riesce a far pubblicare La casa sulla Marteniga. Rievocando quell’ultimo incontro, nella prefazione scrive: «Quando ritornò per raccontarmi sembrava rasserenata, come se in quel luogo tanto lontano avesse capito cose che “gli altri” non sarebbero mai riusciti a capire. Il suo silenzio in quel pomeriggio fu mesto e profondo, come nei villaggi abbandonati nelle Alpi, o nella steppa lontana».
E conclude il suo scritto rivolgendosi ai lettori: «…queste pagine sono vive, sincere e drammatiche, di una donna che non ha voluto restare serva, che non ha voluto restare ignorante, che non ha voluto tacere. E che ha sempre lottato contro ogni fascismo. Anche per la nostra dignità».
Tina Merlin nel 1990, un anno prima della sua scomparsa. Per gentile concessione di suo figlio, Toni Sirena
Una sintetica bibliografia di Tina Merlin:
Menica e le altre. Racconti partigiani, Renzo Cortina editore, 1957
(ristampato da Cierre edizioni nel 2002).
Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Edizioni la Pietra, 1983 (ristampato da Cierre edizioni nel 1997).
La casa sulla Marteniga, Il Poligrafo, 1993, prefazione di Mario Rigoni Stern (ristampato da Cierre edizioni nel 2008, senza la prefazione).
La rabbia e la speranza. La montagna, l’emigrazione, il Vajont, Cierre edizioni, 2004.
Vedi anche:
Rocco Rocco, La razione di ferro, Rebellato editore, 1969.
Marco Paolini e Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, 1997
Adriana Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, Cierre edizioni, 2011.
Giuseppe Mendicino, Portfolio alpino, Priuli & Verlucca, 2017 e Mario Rigoni Stern. Un ritratto, Laterza, 2021.