Heidi compie 50 anni, ma non abita più qui
Il cartone animato di Heidi fu lanciato in Giappone giusto 50 anni fa. Il romanzo di Johanna Louise Heusser, e ancor più il cartone di Takahata-Miyazaki, contribuiscono a semplificare la complessità del mondo alpino trasfigurandolo in un paradiso tanto più convincente quanto più vicino allo stato di natura
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Tenera, piccola, con un cuore così… le parole di Elisabetta Viviani e le note della sigla di Heidi accompagnano ormai da generazioni l’infanzia di tutti. Non ci sembra vero che quella bimba solare, positiva, amante della montagna abbia già cinquant’anni, perché il suo è il profilo senza tempo di un’infanzia felice. Il cartone animato di Heidi fu lanciato in Giappone giusto 50 anni fa, il 6 gennaio 1974 (ma in Italia solo 4 anni dopo, nel febbraio del 1978), rilanciando in tutto il mondo la fortuna del già notissimo romanzo di Johanna Louise Heusser, coniugata Spyri, che lo pubblicò nel 1880.
Johanna appartiene alla borghesia zurighese, figlia di un medico e di una poetessa, e ambienta il suo romanzo nel cantone dei Grigioni, a Maienfeld, un villaggio ad un centinaio di chilometri da Zurigo, ben noto alla Spyri perché lì vi trascorreva le sue vacanze estive. La sua conoscenza di quelle montagne è profonda e dettagliata, e questa conoscenza traspare fedelmente nel romanzo: nei nomi dei luoghi, nella descrizione dei paesaggi, del tempo meteorologico, nella caratterizzazione dei personaggi, persino nei dettagli della preparazione del cibo o di lavorazione del formaggio.
Eppure una conoscenza così “precisa” di quella montagna di fine Ottocento è comunque orientata nel romanzo in maniera selettiva, seguendo quella che era la sensibilità della borghesia dell’epoca, ispirata all’elvetismo (la rappresentazione simbolica del paesaggio alpino come luogo d’origine delle virtù morali della nazione) e al mito del buon selvaggio di Jean Jacques Rousseu, per il quale solo il ritorno ad uno stato di natura e di assoluta felicità per l’uomo poteva combattere le distorsioni della civiltà. È la cifra della modernità che si affaccia sulle Alpi, ed è l’idea di montagna che ancora oggi alimenta stereotipi di cui la popolazione urbana è imbevuta. Nel romanzo questi ideali si riflettono nel contrasto tra mondo alpino edenico e mondo urbano cupo, triste e grigio, tra montagna virtuosa e città malata. Un bipolarismo che si rispecchia geograficamente nei toponimi più ripetuti: il tedesco Alm, che si riferisce al sito d’alpeggio e alla baita del nonno di Heidi, e la città di Frankfurt. È un binomio che riduce al minimo la presenza di spazi e paesaggi intermedi, tra la città e le alte quote, stritolando le montagne di mezzo.
Questa polarizzazione è ulteriormente accentuata nelle scene del cartone di Takahata e Miyazaki, in cui i paesaggi prevalenti diventano quelli delle vette innevate, dei laghetti proglaciali, dei prati e pascoli d’alta quota intervallati da maestosi boschi di abeti, di un mondo animale e vegetale in armoniosa simbiosi con l’uomo (il cane Nebbia, ad esempio, è un’invenzione giapponese che nel romanzo non esiste): scene ispirate dalla sensibilità shintoista alla ricerca di una comunione con la natura che caratterizzerà tutta la poetica di Miyazaki. Il romanzo della Spyri, e ancor più il cartone di Takahata-Miyazaki, insomma, contribuiscono a semplificare la complessità del mondo alpino trasfigurandolo in un paradiso tanto più convincente quanto più vicino allo stato di natura: ed è esattamente ciò che la borghesia urbana vuole vedere e inizia a cercare nei “vuoti” delle alte quote, oltre i “pieni” dello spazio abitato di valli e versanti. Dietro le quinte di questi scenari, insomma, rimane nascosta un’altra montagna: un purgatorio più che un paradiso, un luogo di fatica, un mondo obliquo abitato capillarmente e lontano da scenari sublimi, in cui natura e umano sono indistinguibili, o scendono a patti quotidianamente. È singolare infatti che in un cartone così sensibile al paesaggio e alla natura, così come nel romanzo del resto, non compaiano i coltivi di fondovalle, i vigneti terrazzati, i castagneti di versante, i boschi misti al di sotto dell’orizzonte degli abeti che pur esistevano all’epoca tra i 500 e i 1000 metri di quota attorno al villaggio di Maienfeld. Il villaggio è di fatto solo un luogo di passaggio, una tappa intermedia nel viaggio verso l’alto a cui tende la nascente epopea turistica: è uno spazio sociale chiuso, ostico, caratterizzato dal comportamento meschino dei montanari: una montagna che non interessa gli occhi assetati di natura della popolazione urbana.
Eppure, è proprio quel mondo di montanari “rozzi e gozzuti”, come li definì Goethe, che ha letteralmente costruito quel paesaggio, che si prende ancora cura dei prati, dei pascoli, dei boschi: sono loro gli artefici e i custodi di quella che agli occhi del mondo urbano è solo “Natura” senza uomo. La solitudine e staticità del nonno di Heidi, costretto a vivere in una baita d’alpeggio per tutto l’anno, è condizione del tutto anomala e innaturale nel mondo alpino dell’epoca, abituato a muoversi e ad occupare lo spazio in verticale a diverse fasce altimetriche a seconda delle stagioni. Ma proprio quell’isolamento “innaturale” del nonno – nel romanzo giustificato come espiazione per un passato discutibile – viene trasfigurato nella figura pedagogica perfetta per trasmettere alla piccola Heidi e successivamente a Klara (antesignane del nuovo mondo urbano che si affaccia sulle Alpi) i segreti salvifici della Natura.
L’ideale e reciprocamente vantaggiosa “mediazione” tra montagna e mondo urbano prospettata nel lieto fine del romanzo richiedeva tuttavia un delicato bilanciamento di ruoli e funzioni. Nella realtà l’ultimo secolo ha visto la città catapultarsi in quota trasformando quella mediazione in una caricatura: una montagna-brand ad esclusivo uso e consumo turistico lontana anni luce da quella del romanzo che, tuttavia, ne ha inconsapevolmente fornito i presupposti.
Oggi il “regno di Heidiland” (https://heidiland.com/it/) è diventato un paradiso per il tempo libero in cui tutto ruota attorno al turista: dallo skipass alle passeggiate, dal ristorante tipico al museo di souvenir; pastori, vacche e baite sono esibizioni per turisti e i luoghi iconici della fiaba sono diventati case-museo dove la montagna è ferma a fine Ottocento, dove tutti i sentieri sono dedicati ad Heidi, si può visitare uno zoo “ricco di simpatici animali”, e persino un’area di servizio dell’autostrada A13 Coira-Zurigo è divenuta un parco giochi con tanto di caprette che fanno tristemente ciao chiuse in un recinto.
Alla luce (o all’ombra) di tutto questo, l’amministratore bellunese Sergio Reolon nel 2016 ha pubblicato un libro-invettiva dal titolo provocatorio Kill Heidi. Come uccidere gli stereotipi della montagna e compiere finalmente scelte coraggiose: un invito a non considerare la montagna-natura solo come destinazione di flussi turistici, e a prendere in considerazione esigenze e bisogni di chi in montagna ci vive tutti i giorni. Non si tratta ovviamente di “uccidere Heidi”, in sé portatrice di un messaggio di libertà e amore per la natura dal valore universale: si tratta di combatterne le semplificazioni, le banalizzazioni e le aberrazioni che in suo nome si sono ingenerate un po’ ovunque, non solo in Svizzera. Si tratta di allargare l’orizzonte e osservare la montagna in tutte le sue sfaccettature, rendere complesso il quadro, decostruire una natura idealizzata opposta all’umano, andare oltre (e talora denunciare) ciò che nella cartolina o nella vetrina alpina non si vuole far vedere. Heidi è un mito, una favola, un personaggio di fantasia: ma se potesse esistere oggi una Heidi nel mondo alpino, sicuramente non abiterebbe più lì.