Guidato da un anello di crescita riporta in luce la forma dell’albero giovane. Giuseppe Penone, lo scultore che collabora attivamente con la natura
Lo scultore Giuseppe Penone nasce il 3 aprile 1947. Ciò che Penone ha chiesto alla natura non è di lasciarsi ritrarre, ma di collaborare attivamente, partecipando in modo diretto alla realizzazione dell’opera. Quelli che nascono, sono percorsi visivi inediti e talvolta spiazzanti, proprio perché in lui non vi è il desiderio di appropriarsi del soggetto, decontestualizzando le forme che l’ambiente, per suo conto, ha saputo produrre
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Per Giuseppe Penone, nato il 3 aprile 1947, la natura è sempre stata la fonte prima e mai abbandonata della sua ricerca espressiva, su questo non vi sono dubbi. Ad essa e al suo manifestarsi, però, egli non si è mai avvicinato per individuare una serie di soggetti da mettere in posa: ciò che Penone ha chiesto alla natura, infatti, non è di lasciarsi ritrarre, ma di collaborare attivamente, partecipando in modo diretto alla realizzazione dell’opera. Quelli che nascono, sono percorsi visivi inediti e talvolta spiazzanti, proprio perché in lui non vi è il desiderio di appropriarsi del soggetto, decontestualizzando le forme che l’ambiente, per suo conto, ha saputo produrre. Spazio e tempo assumono nella sua opera una funzione narrativa, così da restituire in modo fedele l’energia vitale che ogni elemento naturale contiene. Un’energia che arriva dai primordi dell’esistenza, ma capace di adattarsi alle situazioni di un presente che, sempre più, ne mette a dura prova il “naturale” istinto di sopravvivenza.
Sensibile al pensiero orientale, Penone sa che il fluire della vita, trattiene nel presente anche le tracce di ciò che è avvenuto in precedenza. Tracce lontane, difficili da individuare, ma percepibili: inglobate da un tempo che, il più delle volte, senza cancellarle, le rende invisibili. Le trova sia in profondità, quando scava il marmo per evidenziarne le venature, che in superficie: nel reticolo geometrico e nelle arricciature di una corteccia, provocate dall’accumulo di sostanze organiche. In altri casi, dopo averla determinata, Giuseppe Penone riempie di significati e trasforma in scultura la crescita irregolare di un albero.
Archeologo del presente. Come quando, alla fine del secolo scorso, dopo il passaggio violento di una tempesta nei giardini di Versailles, egli riesce ad aggiudicarsi ad un’asta due cedri secolari, sradicati dal vento: guidato da un anello di crescita, inizia un lento e meticoloso lavoro di recupero, riportando in luce la forma dell’albero giovane. Una forma andata perduta, però esistente e, alla fine, riesposta proprio in quegli stessi giardini, a pochi passi dalla reggia.
Un susseguirsi di situazioni ed eventi, strettamente collegati tra loro, senza interruzione di sorta. Persino il respiro, ha sottolineato in più occasioni l’artista, è in grado di innescare un processo di modificazione all’interno del contesto in cui viviamo: “Quando si respira si produce un volume d’aria diverso da quello che ci circonda e questo volume d’aria è già una scultura. Una scultura automatica, continua, che produciamo per tutta la vita”. A questo proposito, una delle sue opere più rappresentate e note si intitola “Soffio di foglie – Respiro” (1978): un cumulo di piccole foglie leggere di bosso sono appoggiate al pavimento e portano l’impronta dell’artista. Anche in questo caso, la pressione del corpo e il respiro ne hanno modificato la forma.
Grazie al prestigio che egli gode a livello internazionale, le sue sculture sono state esposte in musei e istituzioni di grande rilievo, tuttavia è negli spazi esterni che esse trovano la loro ideale collocazione. Non sempre questo è possibile, come quando, ad esempio, nel 2016 espose al Mart di Rovereto. Gli organizzatori in quell’occasione ebbero però la felice idea di aprire i lucernari del secondo piano, permettendo così il diffondersi di una luce omogenea e zenitale. Così le sue sculture ritrovarono l’origine “fluida” del loro sviluppo generativo. Un ricongiungimento tra esterno e interno, essenziale per una corretta lettura della sua opera. Quella che entrava dai lucernari, infatti, era la medesima luce che ancora avvolge i monti circostanti, guardiani dell’intera Vallagarina: il monte Stivo, il monte Zugna e poi il Finonchio e il Biaena. Aspri spuntoni di roccia, stretti alla base da una fitta vegetazione di conifere e faggi. Simile a quella che Penone, quando vi torna, ritrova nei boschi di Garessio, in provincia di Cuneo, il paese dove ha vissuto prima di trasferirsi a Torino e dove, sin dalla fine degli anni Sessanta, ha trovato modo di esprimere l’esigenza creativa che lo inserirà tra gli esponenti dell’Arte Povera, teorizzata da Germano Celant.
Dunque: un rapporto paritario e dialogante con l’ambiente esterno, il suo, capace di modificarne la morfologia attraverso una serie di esperienze visive e tattili: “Anche col marmo è così, se lo accarezzi, si ha l’impressione davvero di toccare la pelle. Per me la scultura è questo, non altro, un gesto semplice, elementare: toccare, lasciare una traccia, abbracciare la natura”.
C’è una componente originaria: atavica e primordiale nel suo lavoro ma, allo stesso tempo, a puntellarlo vi è una sapiente base teorica che legge con occhio attento il presente: questo rende la sua ricerca espressiva estremamente affascinante. Affidiamoci ancora alle sue parole dunque: “Non si può fare una buona scultura se non si dà dignità alla materia. Nel fondo c’è un sentimento che è anche quello della vitalità presente nella materia. Questo, indirettamente, produce un’attenzione diversa a ciò che ci circonda, alla natura. Che può aiutare una riflessione sulla necessità della sua preservazione”.