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Cultura

Dipinse quadri che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere: la linea d'ombra, piena di luce, di Umberto Boccioni

Nacque il 19 ottobre 1882 e lasciò uno tra i solchi più profondi di tutto il Novecento italiano, sia come pittore che come scultore, questo va ripetuto. Così come va ripetuto che vi è un Boccioni prefuturista, la cui qualità non era inferiore

di
Silvio Lacasella
20 ottobre | 13:11
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Anche se bruscamente interrotta a soli trentatré anni, non sono certo pochi i passaggi significativi che accompagnano la biografia di Umberto Boccioni, addensati all’interno di una vicenda artistica iniziata presto e favorita, proprio nel periodo della formazione, dai continui spostamenti del padre (usciere di prefettura). L’episodio che ne determinò la morte è tristemente noto: 16 agosto 1916 Boccioni, irredentista, arruolatosi come volontario nel Corpo ciclisti e automobilisti, durante una normale esercitazione in località Sorte, a Chievo, nella cintura periferica di Verona, viene disarcionato e trascinato dal suo cavallo, impaurito dal passaggio di un autocarro.

 

Nel ricordarne la nascita, avvenuta a Reggio Calabria il 19 ottobre 1882, il suo percorso offre la possibilità di rimarcarne la qualità artistica perfino saltando a piè pari il capitolo più celebre: quello che lega il suo nome al Futurismo, movimento al quale egli contribuì da subito in forma diretta e decisiva.

 

Verso la fine del 2007, a cura di Virginia Baradel, a Padova venne allestita, negli spazi ristrutturati della Galleria Cavour, una mostra che metteva in evidenza quale ruolo determinante ebbero i traguardi raggiunti dal “Boccioni prefuturista”. Va subito detto che, dopo gli anni cruciali della giovinezza, a Padova vi tornò in più occasioni, per trovare la madre e la sorella.

Sette i dipinti presenti a quell’esposizione, ma tutti di grande qualità. Vi era, inoltre, una splendida fotografia della sorella Amelia, ripresa dall’artista con i colori ad olio; qualche disegno, qualche prova capace di evidenziare la sua raffinata abilità come illustratore: attività peraltro esercitata malvolentieri, con il solo fine di sostenere economicamente la sua arte. Opportuna e illuminante, inoltre, la scelta di dare testimonianza di un clima culturale aperto e vivace ma, come tanti altri, non indicato nelle mappe del rinnovamento artistico del primo Novecento. Un percorso scandito da quadri di pittori che il venticinquenne Boccioni dovette per forza incrociare durante il suo soggiorno: ecco allora l’amico Ugo Valeri (fratello di Diego), la cui vita irregolare di sicuro ne frenò il grande talento; ecco la singolare coincidenza che vede in città, poco più che esordienti Mario Cavaglieri e Felice Casorati - l’uno proveniente da Rovigo, l’altro da Sassari - entrambi allievi del pittore Giovanni Vianello. Ed ecco anche, certo meno nota, ma non ultima in ordine d’importanza, la cugina Adriana Bisi Fabbri, pittrice e sarta, che in quel periodo aveva trovato ospitalità proprio in casa Boccioni, portando con sé colori e cavalletto.

 

D’altronde, come sappiamo e come ci ricordava Umberto Eco, le mostre si possono fare anche con un’opera sola, l’importante, è trattenerne il ricordo. Nella sua misura, quella di Padova fu una breve, intensa immersione, tra foto d’epoca, lettere originali e documenti, taluni inediti. All’interno di vetrinette che ricordavano i bouquiniste parigini, vi era, ad esempio, un articolo ritrovato da Virginia Baradel, scritto da Boccioni sulla “Libertà” a commento della “Sala del Sogno” alla Biennale di Venezia del 1907, tra le cui righe già si individuavano quegli “ardori” che dal 1910 porteranno Boccioni e i suoi primi compagni di viaggio (Carrà, Russolo, Balla e Severini) a sollevare, accanto a Marinetti e alta quanto poche altre, la travolgente onda futurista.

Boccioni ha lasciato uno tra i solchi più profondi di tutto il Novecento italiano, sia come pittore che come scultore, questo va ripetuto. Così come va ripetuto che vi è un Boccioni prefuturista, la cui qualità non è inferiore.

Determinante, proprio agli inizi del 1900, si rivelerà per lui l’incontro con Gino Severini a Roma. No solo perché in modo risoluto gli consigliò di modificare l’impostazione decorativo-cartellonistica assunta dopo aver frequentato l’illustratore Macchiati, ma per averlo portato con sé da Giacomo Balla, rientrato da Parigi con la forte convinzione di poter rielaborare l’esperienza divisionista, inserendola in un vocabolario assai diverso da quello ancora utilizzato da Morbelli o da Gaetano Previati, peraltro stimato da Boccioni.

  

Scelto per far da copertina al catalogo Skira stampato per l’occasione, a Padova vi era il “Ritratto del dottor Achille Tian”, rinvenuto in pessime condizioni dentro a un ripostiglio negli anni Cinquanta. Provando a sintetizzare: Boccioni vuole vedere di persona cosa succede a Parigi e vi arriva il primo aprile 1906, poco dopo scrive alla madre: “Sono in una città addirittura straordinaria, qualche cosa di mostruoso, di strano, di meraviglioso”, ma il 25 agosto, convinto da una “bella e giovane signora russa” (Augusta Berdnicoff), lascia la Francia per raggiungere Tzaritzin, sulle rive del Volga. Sempre alla madre, soggetto di parecchi dipinti (tra questi, uno dei suoi massimi capolavori intitolato “Materia”, dipinto tra il 1912 e il ‘13), comunicherà il suo iniziale entusiasmo: “Finalmente ho vinto! Lunedì sera 27 a mezzanotte parto per la Russia. Solo quando vi sarò vicino a viva voce vi potrò descrivere le ansie di questo mese. Fino a questa sera alle 5 io sono stato nel dubbio più feroce sulla mia partenza… Che sforzo! Finalmente ho vinto! Alle 5,30 di questa sera ho venduto per 50 lire 4 disegni (…) era robaccia di caccia alla volpe senza alcun valore”.

Come andranno le cose in Russia? Meno bene del previsto. Come non bastasse, quando rientra il quattro dicembre, si porta appresso una forma acuta di bronchite. Questa volta si confida col padre, residente a Roma, separato dal resto della famiglia per unirsi con la domestica sedicenne della sorella: “Eccomi a raccontarti del mio enorme viaggio che nulla mi ha fruttato in quattrini, a causa della rivoluzione e del freddo al quale io non ho potuto resistere”. Fortunatamente, a Padova, incontra il dottor Tian che, dopo averlo visitato, invece di farlo ricoverare in ospedale lo porta a casa sua, tenendolo in cura sino alla guarigione. Riconoscente, Boccioni gli fa il ritratto.

 

Padova inizia a stargli stretta e col fiuto cerca la sorgente della contemporaneità: “Sono stato in campagna per lavorare e non ho trovato nulla. Le solite linee mi stancano (…) e pensare che appena arrivato a Padova ne ero entusiasta e speravo” oppure “Ieri ero stanco della gran città, oggi la desidero ardentemente. Sento che voglio dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale”. Decide quindi di partire: prima Venezia, poi a Milano.

A conclusione di questo inconsueto ricordo, lo ritroviamo verso la fine sul Lago Maggiore: Boccioni nel giugno del 1916 è ospite a Pallanza, con il compositore Busoni - rimasto celebre anche grazie al Ritratto che in quei giorni gli fece l’artista – dei marchesi della Valle di Casanova a Villa San Remigio. Nel vicino Isolino di San Giovanni trascorre le giornate Vittoria Colonna Caetani, in dorata attesa del rientro del marito dal fronte. Venuta a sapere del Ritratto di Busoni, Vittoria Colonna raggiunge in più occasioni la villa, conoscendo Boccioni. Per farla breve, tra i due nasce una forte simpatia.

Difficile provarlo con sicurezza, fatto sta che le convinzioni espresse in precedenza, non solo utilizzando le note più alte della sua tavolozza, ma anche a voce: “Tutto il passato, meravigliosamente grande, m’opprime, io voglio del nuovo” oppure: “Tutta l’arte moderna mi pare vecchia. Voglio del nuovo, dell’espressivo, del formidabile”, paiono essere improvvisamente attraversate da un vento caldo.

 

Effetto Pallanza o, più probabilmente, effetto Vittoria: “Qui tutto è magnifico. Ogni giorno faccio gite in automobile che mi mostrano cose mai viste”. Dipinge quadri che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere. All’interno di queste opere, Cezanne c’è di sicuro: pennellate pastose ora scorrono nella tela, inerpicandosi per definire una o più montagne in lontananza. Episodi scollegati dal resto o una gioia finale? Una riappacificazione, forse un presentimento. Un saluto. Non si tratta di un passo indietro, tanto meno di un tradimento. Proclami e lunghi silenzi, aiutano a capire, sono però gli stati d’animo a giustificare la presenza dell’arte.

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