"Dai boschi ritorna la vita". Francesco Guccini, la piccola grande lezione forestale di un cantautore appenninico
Nei testi di Francesco Guccini si trovano spesso accenni alle foreste: boschi naturali, che prosperano senza l'uomo, e boschi coltivati, che dialogano con l'uomo. In questa Giornata internazionale delle foreste riascoltare alcune canzoni del cantautore appenninico è un esercizio che apre mente e cuore alla complessità, permettendoci di riflettere sulle sfide del nostro tempo
Per questa Giornata internazionale delle foreste, la prima celebrata da L’AltraMontagna, volevo proporre qualcosa di speciale. Ma più pensavo a cosa, più mi incartavo su me stesso. Le idee erano tante, ma come lampi confusi in un temporale notturno, illuminavano per pochi secondi un buio denso, dove era impossibile orientarsi.
Quando va così, le scelte sono soltanto due. Uscire per muoversi un po' a piedi o in bicicletta, cercando coi muscoli di riattivare i pensieri, oppure mettere un disco e far volar via il temporale interiore con note e parole altre.
Pioveva, così ho messo un disco. Ed è bastato davvero poco per sentire la burrasca allontanarsi: non solo mi ero tranquillizzato grazie a una musica familiare, che mi ricordava di vecchi viaggi in montagna sulla macchina dei genitori, ma in quei testi - lo sentivo - stava la soluzione. Il disco era di un cantautore italiano, uno dei più grandi di sempre, che ascolto fin da bambino: Francesco Guccini.
Alberi e foreste si trovano spesso nei testi del “maestrone”, fin dall’album di esordio, uscito nel lontano 1967. In quel disco una canzone dal tono post apocalittico, resa famosa dai Nomadi e poi reinterpretata dai CSI, parla di foreste in un mondo dove l’uomo è scomparso per sua stessa mano: “Noi non ci saremo”. Il pezzo narra di uno scenario di autodistruzione, dove però la vita sulla Terra riparte e continua senza di noi. Negli anni in cui la canzone era stata scritta nell’aria spirava un concreto incubo nucleare: una tensione che, riascoltata oggi, risuona attualissima, non solo per le terribili guerre in atto, ma anche per le potenziali conseguenze della crisi climatica e ambientale.
“Vedremo soltanto una sfera di fuoco / più grande del sole, più vasta del mondo / nemmeno un grido risuonerà / E catene di monti coperte di neve / saranno confine a foreste di abeti / mai mano d'uomo le toccherà / E solo il silenzio come un sudario si stenderà / fra il cielo e la terra, per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo, noi non ci saremo”
Nelle strofe della canzone, le foreste senza l’uomo prosperano. Sono gli ecosistemi dai quali Guccini fa ripartire il nuovo viaggio della natura: “E dai boschi e dal mare ritorna la vita / e ancora la terra sarà popolata / e ancora il mondo percorrerà / gli spazi di sempre / per mille secoli almeno / ma noi non ci saremo”.
Lungo salto in avanti nel tempo: 2019, l’ultima canzone incisa da Guccini. Magnifica, difficile, arrivata quando nessuno se l’aspettava: “Natale a Pavana”. Una canzone profondamente appenninica in dialetto pavanese, che non riesco ad ascoltare - lo giuro - senza commuovermi. Il cantautore ricorda di quand’era bambino, di quando sceso forzatamente dai “suoi monti” abitava in pianura, a Modena, con i genitori. Di quando, appena prima del Natale, finalmente tornava lassù nel suo Appennino: “a cà mia” - in montagna - “al me fiumme, ai mée monti, al mé mondo”.
Le foreste, in questa canzone, sono presenti sotto forma di legno e di frutto, in una minuziosa descrizione del mulino di famiglia: le tavole di castagno del pavimento, la farina di castagne nei sacchi ammonticchiati lungo i muri.
Il castagno, specie simbolo del legame millenario tra esseri umani e foreste lungo la nostra Penisola, è presente in altre canzoni del cantautore emiliano. Una presenza discreta ma potente, che fa brillare ricordi, che sa di paesaggio, di identità, di comunità.
Di castagno si parla in “Amerigo”, struggente racconto di emigrazione verso l’America; una nostalgia dolce, in netto contrasto con la ferita inferta dalla lingua straniera: “E Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell'Appennino / l'inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello”.
Di castagno, o meglio, addirittura di “miracolo della castagna”, si parla in “Il caduto”, triste canto di guerra, in una delle strofe più forestali - sfido a dimostrare il contrario - della canzone italiana: “Io che guardavo la vita con calmo coraggio / cosa darei per guardare gli odori della mia montagna / vedere le foglie del cerro, gli intrichi del faggio / scoprire di nuovo dal riccio il miracolo della castagna”.
E ancora di boschi d'Appennino si parla in “Canzone di notte n. 4”, dove le selve poste attorno al paese diventano non solo luogo di pensieri giovanili, ma anche, insieme al torrente Limentra, soggetto di un dialogo immaginario che sottende una relazione intima e profonda. Bosco e uomo assieme, che dialogano, questa volta in contrasto (tornando a “Noi non ci saremo”) con “le macerie delle città”: “La notte la lasciavi scivolare / e poi svaniva, col primo barlume / età acerba e una gran voglia di andare / a parlare coi boschi e con il fiume / mentre adesso quel mondo ti scompare / sotto il bitume”.
In Guccini si ritrovano, insomma, le differenti “visioni forestali” che talvolta dividono forzatamente in squadre avverse la nostra società, che ha reciso molte radici (altra parola cara a Guccini) con la terra, con i monti, ma anche con l'ambiente e l'idea di un equilibrio necessario tra i bisogni degli esseri umani e la conservazione delle risorse naturali.
La foresta selvaggia che vive senza l’uomo, anche oltre ogni possibile distruzione inferta dall’uomo, e la foresta dell’uomo.
La foresta indisturbata e quella coltivata come un giardino (i castagneti da frutto che circondavano Pavana come tanti altri paesi della media montagna) o i boschi utilizzati ciclicamente per produrre legna e legname.
Foreste finalmente libere dalla nostra ingombrante presenza e foreste di comunità, conosciute metro per metro, solcate da generazioni e generazioni, da ricordare con nostalgia quando si è lontani, con cui “parlare” quando si è vicini.
Riascoltando queste canzoni con attenzione vi si intravedono insomma tutte le grandi “sfide forestali” del nostro tempo, che avvolgono ogni foresta del pianeta, anche se su scale e con problemi diversissimi tra loro. Sfide immense, che richiedono una visione ampia, uno sguardo profondo, un pensiero equilibrato e un approccio aperto alla complessità per essere affrontate a dovere.
La Giornata internazionale delle foreste dovrebbe servire ad accendere tanti e diversi riflettori su questi ecosistemi straordinari e fondamentali, per l’intera vita sulla Terra ma anche per la per prosperità della nostra civiltà. Luci necessarie per ragionarne senza stereotipi e pregiudizi, attraverso i dati portati dalla scienza, con una giusta dose di pragmatismo e quel pizzico di poesia che non guasta mai.
“Vacci piano però con certe elucubrazioni”, mi sono detto mettendomi finalmente a scrivere, quando finito quel temporale interiore le idee sono tornate a girare a dovere. Perché in fondo, come insegna Guccini: “Alla fine è fatta di fumo / veste la stoffa delle illusioni / nebbie, ricordi, pena, profumo / son tutto questo le mie canzoni”.
Luigi Torreggiani è giornalista e dottore forestale. Collabora con la rivista “Sherwood - Foreste ed Alberi Oggi” e cura per Compagnia delle Foreste la comunicazione di progetti dedicati alla Gestione Forestale Sostenibile e alla conservazione della biodiversità forestale. Realizza e conduce podcast, video e documentari sui temi forestali. Ha pubblicato per CdF “Il mio bosco è di tutti”, un romanzo per ragazzi, e altre storie forestali illustrate per bambini. Per People ha pubblicato “Sottocorteccia. Un viaggio tra i boschi che cambiano”, scritto a quattro mani con Pietro Lacasella.