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Cultura

Da alcuni considerato un freno alla contemporaneità, ma per Van Gogh fu amore totale: Jean-François Millet divenne per lui una guida

Duecentodieci anni fa, il 4 ottobre 1814, nacque in Francia l'artista Jean-François Millet. Il suo è un unico, ininterrotto, canto d’amore, ripreso con impeto nelle sue note più toccanti proprio da quell' “olandese” che, per meglio sentire, arriverà a trasformare la malinconia in disperato pianto

di
Silvio Lacasella
04 ottobre | 19:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

Duecentodieci anni fa, il 4 ottobre 1814, figlio di contadini, nacque a Gréville-Auge, in Francia, Jean-François Millet: “Di statura superiore alla media, corpulento, con un collo taurino e mani da coltivatore. I capelli scuri e buttati all’indietro scoprivano una fronte volitiva”. Una descrizione precisa, arrivata a noi da chi l’ha frequentato e gli era amico. Anche il grande fotografo Nadar - oltre a immortalarlo in uno scatto rimasto celebre nel quale si vede l’artista con lo sguardo concentrato e fiero di posare con un abito dall’ottima fattura - disegnò una sua caricatura, raffigurandolo con zoccoli ai piedi e vanga in mano, così da accostarne le origini ai temi della pittura.

 

Una fedeltà che gli conferì – forse suo malgrado – una diretta appartenenza alla pittura realista del tempo. Nei dipinti di Millet i soggetti entrano con incantata naturalezza, non con volontà di rappresentazione: una differenza sostanziale con gli esponenti di quel movimento e, non a caso, l’animoso Courbet in più di una circostanza lo criticò aspramente.

 

Anche Cezanne dimostrò una beffarda ostilità nei confronti di quelle atmosfere a suo dire destinate ad evaporare nel sentimentalismo, al punto da reputarle vecchie ghiandole lacrimali. L’ammirazione presto manifestata per Millet da Segantini e da un folto gruppo di pittori dell’Ottocento italiano non ne aiutò il giudizio, poiché questi erano indicati come un freno nella corsa verso la contemporaneità, preferendo ad essa impasti cromatici mielosi e rassicuranti.

A scompaginare le carte, però, con Pissarro e Gauguin, che già ne avevano colto le qualità (con loro anche alcuni pittori giunti dall’America), ci pensò Van Gogh. L’amore che il pittore olandese ebbe per Millet da un certo momento in poi fu totale: divenne un esempio, una guida, un faro. Tant’è vero che, più di ogni altro, egli dimostrò immensa e rispettosa ammirazione per questo cantore della sensibilità e del raccoglimento, sceso in città poco più che ventenne da un piccolo villaggio della Normandia. Così diversi, così profondamente uniti: diverso il loro carattere, il ritmo della pennellata; diametralmente opposto l’approccio espressivo. Millet e Van Gogh sono gli estremi che, indietreggiando, inconsciamente si cercano e alla fine si toccano attratti da una calamita posta all’interno della loro “natura” artistica. Rappresenta, questo caso, una delle tante sovrapponibili diversità che aiutano a comprendere ciò che stiamo guardando.

 

Ci fu un’occasione per rimisurare la grandezza dei due artisti, quando nel 1998, a Parigi, in quella “stazione” di smistamento verso la contemporaneità che è il Museo d'Orsay, le loro opere furono appese alle pareti una accanto all’altra. Certo, chissà cosa avrebbe detto Jean-Francois Millet di Vincent Van Gogh se avesse avuto modo di conoscerlo. Lui così silenzioso, riflessivo, capace di trovare nelle insenature dell'animo, anche e soprattutto nei momenti più dolorosi, una condizione di religiosa serenità; lui, incompreso dai più vedersi amato, tra tutti e più di tutti, da una sorta di licantropo “urlante”, le cui tele porteranno per sempre i segni delle ustioni provocate dalla sua stessa fiamma. Qui da noi, nel 2006 Marco Goldin riuscì a organizzare negli spazi del Museo di Santa Giulia a Brescia, una mostra personale di Millet, sorprendente per numero e qualità di opere, incuneata tra una ancor più grande rassegna imperniata sul difficile rapporto tra Van Gogh e Gauguin.

Alcune singolari coincidenze uniscono i due artisti: gli esordi dedicati quasi esclusivamente al disegno; la premonizione della morte fissata nella tela con un orizzonte dal quale si alzano corvi minacciosi; e la medesima, grondante insofferenza nei confronti della vita cittadina unita alla necessità di osservare il proprio tempo senza perdere il contatto con una natura intesa come madre dell'esistenza. Tuttavia, in Millet non v'è disperazione, bensì fiduciosa attesa. Un sentimento che si diffonde attraverso una luce morbida, avvolgente, capace di levigare i contorni. Umili lavoratori, quasi sempre contadini colti in una delle rare pause della giornata; pastori o filatrici; interni domestici disadorni, dove il passaggio di esperienze tra anziani e bambini, più volte rappresentato dal pittore, sembra riprendere l’alternarsi delle stagioni. Non scorda l’arte che l’ha preceduto. Si volge indietro e guarda a Michelangelo: “Ho inteso la parola di colui che mi ossessionerà per tutta la vita” e a Poussin: “Potrei passare tutta la mia vita faccia a faccia con l'opera di Poussin e non ne sarei mai sazio”. Ma il suo respiro si trattiene di fronte a Vermeer.

Nello stesso tempo scrive: “Ciò che di più allegro conosco è questa calma, questo silenzio di cui si gioisce così intimamente all’interno del bosco o sui campi arati”.

 

A poca distanza, un altro grande pittore troverà nella realtà la sua massima fonte di ispirazione: Gustave Courbet. Come detto, tra i due non vi saranno buoni rapporti, non a caso Courbet sceglie di rimanere a Parigi, di entrare nella lotta per partecipare al cambiamento, non accontentandosi di una regola divina. E se le opere di entrambi verranno aspramente criticate nei vari Salon parigini, sarà Millet a trovarsi davvero solo, poiché gli si schiereranno contro, assieme a Courbet, filosofi come Proudhon o poeti come Baudelaire, accusandolo, se non di codardia, di eccessiva dolcezza compositiva.

Un anno dopo le rivolte parigine del 1848, anche per fuggire a un'epidemia di colera, Millet si  ritirerà a Barbizon (dove morirà nel 1875), ai margini della foresta di Fontainbleau, lo studio senza pareti per Rousseau e i suoi amici. Si accorgeranno di lui alcuni pittori (Hunt, ad esempio) e collezionisti americani, quasi tutti di Boston. Molte opere formidabili oltrepasseranno dunque l’Oceano: 250 tra quadri, acquerelli e disegni.

 

A Brescia, proprio provenienti da Boston, per qualche mese hanno sostato l’”Autoritratto” del 1840, caratterizzato da un composto romanticismo, e il ritratto della prima moglie, Pauline-Virginie Ono,  nel quale si intuiscono gli insegnamenti di Paul Delaroche. Con loro, alcune opere che, alla metà del secolo, ne determineranno la grandezza: “L'Angelus” e “Le spigolatrici”. Non mancava “Il Seminatore” del 1850, quadro reso ancora più iconico grazie alle versioni dipinte successivamente da Van Gogh. Qui la sera ha allungato un velo d’ombra sul campo dove un contadino, mentre avanza, mantiene un passo ancora sicuro, spargendo tra le crepe quanto poi la terra generosamente restituirà. Qualcosa nella pennellata pastosa e sicura ricorda Daumier. La fatica la si coglie solo nella smorfia che l'uomo trattiene nel volto scavato, mentre la figura trasmette attraverso il gesto un ritmo che ne aiuta il lavoro. Il colore, pur impastato con la polvere, inventa nuovi e preziosi passaggi cromatici, ravvivando gli indumenti indossati dall’uomo. “Su alcuni scaffali, in un angolo, c'era quello che Millet chiamava il suo vero museo: una collezione di brandelli e pezzi di tessuto, di differenti colori, scoloriti e macchiati dal tempo, frammenti di fazzoletti, bluse, sottane, capaci di offrire sfumature di colore più squisite di quelle che può produrre qualsiasi tintore” scriverà Edward Wheellwrigt, giovane pittore di buona famiglia, che praticò una sorta di “stage” a contatto con Millet.

“Uomo che vanga”, “Mietitori a riposo”, “La tosatura”, “Donne intente a cucire alla luce di una lampada”, con i “Piantatori di patate” arriviamo agli anni Sessanta; e poi i fogli, i gessetti lumeggiati di bianco, i pastelli, i “paesaggi” dell’ultimo periodo: un unico, ininterrotto, canto d’amore, ripreso con impeto nelle sue note più toccanti proprio da quell' “olandese” che, per meglio sentire, arriverà a trasformare la malinconia in disperato pianto.

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