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Cultura

"Chiamare tutto ciò che è illogico 'fantasia' o 'favola' vuol dire che non si capisce la natura". Marc Chagall, un artista vicino al cielo

Nato il 7 luglio 1887, Marc Chagall è un artista il cui immaginario non ha mai smesso di fondersi e di rigenerarsi grazie alla luce

di
Silvio Lacasella
07 luglio | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

I soggetti, nei quadri di Marc Chagall, svincolati da ogni regola prospettica o legge gravitazionale, entrano ed escono da un dipinto all’altro con incantevole semplicità, fluttuando in uno stato di sospensione onirica. Senza ramponi e senza corde, il suo animo sale, inseguendo una musica che si diffonde nell’aria con le note che l’arte riesce a produrre: a volte melodiose e rasserenanti, altre addolorate da un passato che proietta le sue ombre nel futuro.

 

Quelle che ci ha lasciato sono immagini che non segnano mai una netta linea di demarcazione con il reale: comprenderlo è importante, anche per non alimentare l’equivoco che da sempre lo accompagna. Nell’infondere liricità a ogni sua composizione, egli rafforza la trama del dipinto per effetto di contrasto. Lo pensa e lo scrive: “Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse più reale del mondo esterno. Chiamare tutto ciò che è illogico 'fantasia' o 'favola' vuol dire che non si capisce la natura”.

 

Colpisce che un uomo di così fragili origini, nato il 7 luglio 1887, naturalizzato francese nel 1937, ma proveniente da Vitebsk, una piccola cittadina bielorussa, abbia saputo proteggere per tutti gli anni in cui durò la sua lunga vita i petali delicati dell’immaginazione. Anche perché alcuni dolorosi passaggi biografici legati al suo essere ebreo non ne hanno agevolato gli esordi, senza però rabbuiarne la tavolozza: “Io sono nato morto” era solito ripetere per ricordare quanto avvenne il giorno in cui nacque, quando i cosacchi, in uno dei ripetuti pogrom incoraggiati dalle autorità, distrussero e bruciarono la sinagoga in cui era solita recarsi la sua famiglia.

Chagall rimane Chagall, interiormente intatto: primo di nove figli. Cresciuto, in osservanza dei precetti religiosi, accanto a un padre taciturno, impegnato a stipare nei barili le sardine del Baltico e che non lo avrebbe voluto pittore. Non cambia dopo i tre anni di Pietroburgo, trascorsi accanto ai primi maestri. Non cambia nemmeno nel 1910, quando arriva a Parigi, nel vortice del rinnovamento artistico contemporaneo (“Les Demoiselles d’Avignon” di Picasso è del 1907, tanto per dire).

Inebriato di felicità, di giorno visita i musei, frequenta pittori e poeti, osserva; di notte dipinge. Tutto a Parigi sembra avere un’intensità diversa: “In Russia i miei quadri erano spenti perché la Russia possiede i tipici colori nordici, fatti di grigi, bruni, trasparenze appena accennate. In Francia sono stato colpito dalla luminosità dei colori. Li avevo sempre cercati e adesso li avevo di fronte. Non mi restava che usarli”. Un pensiero che rafforza dicendo: “Sono nato due volte, una a Vitebsk e una a Parigi”.

 

La capitale dell’arte gli offre l’occasione di incontrare, a poca distanza, sia la pittura Fauves, che le accecanti cromie di Van Gogh; le modificazioni timbriche di Gauguin e, ancora vibranti, le pastose trasparenze di Monet. Frequenta Léger, gli irregolari Modigliani e Soutine, anch’essi di origine ebrea. Ballerini e musicisti. Senza avvicinarsi troppo a Picasso, coglie ed elabora, con diversa sensibilità, la forza esplosiva del Cubismo. Guarda tutto, ma trattiene solo ciò che aiuta e rafforza la propria sostanza espressiva: “In Francia, tornavo col pensiero nel mio paese, là dove erano le mie sorgenti vive”.

 

Nel 1914 torna in Russia per assistere alle nozze della sorella. Quando parte ha però un secondo desiderio: ricongiungersi col grande amore della sua vita, Bella Rosenfeld, soggetto di alcuni tra i suoi quadri più celebri. Aveva preventivato di rimanervi poche settimane, invece sarà costretto a prolungare la permanenza fino al 1922, bloccato sia dallo scoppio della Prima Guerra mondiale, sia dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, evento che all’inizio sosterrà con entusiasmo. Tuttavia si ricrederà in seguito, quando, col progredire veloce del Suprematismo, vedrà formarsi un pensiero artistico assoluto e totalizzante.

I soggetti, ricchi come sempre di rimandi culturali e di simbologie, si spengono nei toni e sarà ora la Francia a trasformarsi per Chagall in musa lontana. Impossibilitato persino di rientrare a Mosca, mentre cerca le fonti della sua cultura ebraica, gli si presenta una grande occasione: decorare le pareti del Gosekt, il Teatro da Camera Ebraico. Subito, con ritrovato entusiasmo, lavora senza sosta, immaginando per lo spazio una completa rivestitura interna: pareti, soffitto, sipario. Tanto che, in meno di due mesi termina l’impresa, condensando in quei pannelli l’intero suo mondo. Saranno gli stessi spettatori a definirlo la botte di Chagall.

 

Ci penserà Stalin nel 1949 a rimettere tutto come prima. In gran segreto, qualche anima sensibile, anziché distruggerli, depose questi grandi pannelli nei depositi della Galleria Tret’jakov di Mosca (solo il soffitto e il fondale andranno dispersi). Rivedranno la luce negli anni Settanta, inseguiti e contesi come vere e proprie star ed esposti in luoghi prestigiosi, da Martigny a Zurigo, da Chicago a New York. Da noi si sono visti a Milano (1994), a Roma (1999) e a Mantova (2018).

In quegli stessi anni, all’interno delle sue opere, l’artista vola sopra alla sua Vitebsk, abbracciato a Bella, in un cielo tornato pallido. Il volo è una delle costanti dei quadri di Chagall. In esso vi è la rappresentazione della sua condizione di eterno esule, idealizzando nello stesso tempo un sentimento amoroso capace di sollevare il corpo, collocandolo in una dimensione tutta spirituale. Amore che verrà a mancare a causa di un’infezione virale durante il soggiorno americano, quando, dal 1941 al ’48, Bella e Marc furono costretti a emigrare per sfuggire alle persecuzioni antisemite. 

 

“Per anni il suo amore ha influenzato la mia pittura (…), poi a un tratto un rombo di tuono, le nuvole si aprirono alle sei di sera del 2 settembre 1944, quando Bella lasciò questo mondo. Tutto è divenuto tenebre”.

Un sentimento sincero è presente nella sua arte persino quando in età avanzata (morirà a 97 anni nel 1985) un’incontenibile pulsione produttiva andrà ad alimentare i meccanismi assai meno poetici del mercato: pittura, ma anche ceramica, scultura, mosaico e litografia. Il suo immaginario non smette di fondersi e di rigenerarsi grazie alla luce. Questo avviene sia quando essa scende dall’alto attraversando le sue vetrate (“Per me una vetrata è una parete trasparente posta tra il mio cuore e il cuore del mondo”) e sia quando, al contrario, risalendo in superfice dal profondo, utilizza la tecnica dell’incisione. Tre sono i cicli che vanno perlomeno ricordati, editi da Vollard: quello dedicato alle Anime Morte di Gogol (1923); le Favole di La Fontaine (iniziate nel 1927-30); e quello ispirato da alcuni passaggi della Bibbia (1931-39).

 

L’attività grafica, tra l’altro, gli valse il Gran Premio per l’Incisione alla XXV Biennale di Venezia: l’andatura veloce e penetrante del segno, la necessità di solcare in negativo la matrice metallica, sapendo che solo in seguito essa restituirà nel foglio l’immagine in forma capovolta, non cambieranno la natura e il volto di Chagall. 

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