Carlo Budel e Giselda Torresan: personaggi stereotipati o narratori genuini dei territori montani?
Che il modo di raccontare la montagna di Giselda Torresan e Carlo Budel possa o meno piacere è un riflesso dei propri gusti personali. Ma il loro utilizzo dei social non differisce più di tanto da quello della maggior parte delle persone, anzi si può affermare senza tanti problemi che sono persone decisamente meno costruite di tanti "eroi" che hanno contribuito a corroborare un'idea di montagna molto performativa e poco vissuta
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Sebbene tutti siano ormai fruitori dei social network, c’è ancora una diffusa tendenza a criticarli. Forse perché sono uno strumento pervasivo, che si è diffuso nella società in modo rapido e capillare, influenzando indubbiamente il nostro modo di interpretare il mondo.
Questo, se da un lato attira, dall’altro spaventa, perché spaventano le grandi novità (che poi, a dire il vero, in questo caso di novità non si può neanche più parlare).
Così, se da un lato seguiamo il flusso della corrente, alimentando i social con contenuti, condivisioni, commenti; dall’altro non riusciamo ancora ad accettarli fino in fondo nelle nostre vite. Così come non riusciamo ad accettare quelle traiettorie umane che, grazie ai social, sono riuscite a palesarsi con particolare evidenza.
Questa dinamica di rifiuto ovviamente può trarre origine da diverse motivazioni, alcune comprensibili, come ad esempio l’opposizione a quegli spazi che speculano sulla divulgazione di false notizie; altre meno, come l’invidia, la gelosia e il desiderio inappagato di apparire.
È proprio questa spasmodica voglia di apparire che non trova soddisfazione a originare critiche preconcette, anche nei confronti di persone che, tutto sommato, utilizzano i social in maniera innocua, limitandosi a condividere le proprie esperienze.
Prendiamo ad esempio Giselda Torresan e Carlo Budel, ieri ospiti alla rassegna Un’Ora per Acclimatarsi, organizzata da L’AltraMontagna nell’ambito del Trento Film Festival. Torresan e Budel oggi possono vantare una grande popolarità, ma sono al contempo vittima di commentatori seriali che, puntualmente, riversano nei loro profili tonnellate di acredine con un accanimento che, spesso, non è semplice da comprendere se non per i motivi sopra indicati: invidia, gelosia e, soprattutto, frustrazione.
Giselda Torresan e Carlo Budel alla fine si limitano a raccontare i loro territori: il monte Grappa e la Marmolada. Un attaccamento al territorio che – forse inconsapevolmente – può divulgare un messaggio virtuoso.
Negli ultimi decenni, infatti, si è istallata nella percezione comune la convinzione che la lontananza amplifichi il valore esperienziale del viaggio. Questa percezione ovviamente trova delle fondamenta concrete, perché la ragione principale che spinge il viaggiatore a levare le ancore, è il desiderio di vivere contesti diversi dal proprio (sia dal punto di vista culturale, sia da quello naturalistico-ambientale) e, naturalmente, più chilometri si percorrono e più diventa semplice respirare quell’atmosfera di alterità tanto inseguita, tanto bramata.
Ma non è sempre così: a volte, per stupirsi, è sufficiente curiosare tra i luoghi “di casa”, o comunque prossimi a casa, spesso trascurati proprio per quel meccanismo percettivo appena descritto. Sono appunto troppo vicini per catturare la nostra attenzione.
Così, capita sempre più spesso di conoscere nel dettaglio località molto distanti, e di sentirsi estranei a casa propria. Ed è un peccato, perché conoscere è il primo passo per affezionarsi e affezionarsi è il primo passo per rispettare il territorio e le persone che lo abitano.
Che il modo di raccontare la montagna di Torresan e Budel possa o meno piacere è un riflesso dei propri gusti personali. Ma il loro utilizzo dei social non differisce più di tanto da quello della maggior parte delle persone, anzi si può affermare senza tanti problemi che sono persone decisamente meno costruite di tanti "eroi" che hanno contribuito a corroborare un'idea di montagna molto performativa e poco vissuta. Nulla di strano, quindi, se non per l’esposizione mediatica che hanno acquisito nel tempo.
Il problema di fondo è che in molti – giornalisti compresi – tendono spesso a considerare le persone popolari sulle piattaforme online alla stregua di tuttologi, spingendoli così a uscire dal loro ambito di competenza o di interesse. In questo caso si rischiano di creare cortocircuiti divulgativi controproducenti.
Sta a noi imparare a orientarci con equilibrio sui social, calibrando le nostre riflessioni di profilo in profilo, di pagina in pagina, e criticando, quando necessario, ma attraverso argomentazioni adeguate. Altrimenti non si fa altro che alimentare quel fiume di intolleranza che inquina pericolosamente la gran parte degli spazi online. Spazi che, per nostra fortuna, quando non sono di nostro gradimento abbiamo la libertà di non seguire.