“Ho sofferto una prigionia allucinante”. Uno dei suoi compiti era di dipingere sulle croci il nome dei compagni morti. Storia di Gino Rossi, artista tra i più significativi dell’intero Novecento italiano
“Io sto su, bene in alto, in cima al Montello. E qui la sera e la mattina mi godo il panorama della libertà sconfinata. Potrei qui fare pittura in camicia e anche senza, non ci sono villeggianti, non ci sono che i miei due cani. Sono diventato l’uomo della natura, l’uomo del bosco”. La ricorrenza della nascita a Venezia, il 6 giugno 1884, centoquarant’anni oggi, si presenta un’eccellente occasione per ricordare Gino Rossi, artista tra i più significativi dell’intero Novecento italiano
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Le opere, poste al centro e ai lati di un tragitto artistico tanto breve quanto intenso, formano una sequenza di passaggi emotivi coinvolgenti. Un tragitto sincero, solitario, commovente, forzatamente silenzioso, fissato allo strato più sensibile della coscienza: stiamo parlando di quanto ci ha lasciato Gino Rossi, artista tra i più significativi dell’intero Novecento italiano. Immagini, oltretutto, le sue, che si fissano nella memoria grazie all’autonomia stilistica che le contraddistingue, capace di incunearsi tra Futurismo, Metafisica e ogni altra impetuosa corrente. Al loro interno, però, un respiro europeo le svincola da quella condizione provinciale che segnerà, in quegli stessi anni, non pochi artisti di sicuro talento.
La singolarità del percorso e l’esiguo numero di opere esistenti (circa centrotrenta), a differenza, ad esempio, di quanto è accaduto con Van Gogh - al quale viene da avvicinarlo per alcune coincidenze biografiche - non hanno giocato a suo favore, rendendone popolare il nome anche a chi poco si interessa d’arte, grazie alla forza letteraria del racconto. Se da un lato, infatti, la drammatica vicenda umana ha contribuito a fissare Gino Rossi in una sorta di nicchia sacrale, dall’altro, un assordante silenzio, provocato essenzialmente dalla disattenzione del mercato, ne ha sminuito l’importanza.
La ricorrenza della nascita a Venezia, il 6 giugno 1884, centoquarant’anni oggi, si presenta dunque come un’eccellente occasione per ricordarlo (morirà a Treviso nel 1947). Tutte le biografie iniziano accennando alla sua infanzia, con la casa poco lontana da campo San Samuele e con la condizione abbastanza agiata della famiglia, grazie al lavoro del padre, fattore del conte Enrico Carlo di Borbone, grande collezionista di arte orientale e proprietario di Ca’ Vendramin Calergi: posizione sociale che gli garantì un avvio scolastico di primo livello, sin tanto che, appena quattordicenne, egli non decise di abbandonare gli studi per dedicare ogni sua energia alla pittura.
Poi si crea un vuoto. Molti altri passaggi mancano ed è strano per essere egli un artista che a buon diritto e per dovere possiamo definire contemporaneo. Quasi fosse un pittore del primo Rinascimento, dei suoi esordi si sa poco. Quando Nino Barbantini - figura di riferimento per i giovani artisti, nonché direttore di Ca’ Pesaro – gli chiese informazioni sui suoi primi anni, Rossi rispose: “Vuoi sapere cosa ho fatto da ragazzo? Ho perduto la memoria di tutto questo”. Che dire, lo si potrebbe chiamare “Il maestro della fanciulla del fiore”, tanto quel quadro, “la sua più bella poesia”, come l’ha ben definita Giuseppe Mazzotti nei “Colloqui” (Edizioni Canova – 1974), comparve quasi dal nulla, nel 1909, al rientro dal primo viaggio a Parigi e in Bretagna. Esperienza determinante sia per allontanare dalla sua tavolozza la coda stanca dell’Ottocento italiano, staccatasi come quella di una lucertola nel secolo successivo, e sia per trovare confermate in quei luoghi alcune sue intuizioni pittoriche. Partito forse alla ricerca di Cezanne, finirà per trovare legami più forti in Gauguin. Quindi i musei: le stampe e le ceramiche orientali. Campiture cromatiche inserite come tasselli: digradanti in toni viola, blu, gialli a delineare un albero, una barca, un volto, un’intera figura. Soggetti affioranti in superficie e illuminati da una luce retrostante: “coisonnisme” marcati nervosamente nei contorni, quasi per sottolineare la presenza di ciò che nella composizione l’artista va raffigurando. Timbri, suoni, note musicali. Con Paul Gauguin sente vicino Emile Bernard.
Come nelle vetrate, dunque, la composizione pare ricevere la luce da dietro, da un esterno che in realtà si fa interno. Si veda, a questo proposito, di Gino Rossi, la “Grande descrizione asolana” del 1912 o l’insuperabile scorcio intitolato “San Francesco del Deserto”, dipinto buranese colto nell’ora in cui la luna, sovrapponendo per pochi istanti la sua luce ai primissimi bagliori del giorno, inizia a dare un profilo alle forme, a dividere i colori. Burano, 1910 – 1912, la stagione probabilmente più intensa della sua pittura. Una stagione rasserenata da momenti di fiducia. Poche case, molti amici artisti: Martini, Moggioli, Garbari, Scopinich, Malossi, Semeghini. Tutti lì a dipingere, inseguendo una speranza. Anche se non vi saranno grandi affinità espressive, la vicinanza formerà ugualmente una sorta di benefico collante. Tuttavia sarà solo con Arturo Martini che Rossi andrà a intrecciare in modo significativo la propria ricerca probabilmente attratto da quanto nell’opera dello scultore trevigiano rimase dopo un viaggio a Monaco nel 1909. Lo si coglie anche in queste parole: “Monet, Pissarro, Guillaumin ecc, ci avranno indubbiamente lasciato delle belle cose dal punto di vista del colore. Ma non si costruisce col colore, ci costruisce con la forma”.
Così, in seguito, lo ricorderà Pio Semeghini: “Temperamento di Moschettiere non partecipava mai agli scherzi scambiati tra di noi. Prendeva tutto sul serio. Nella discussione come nell’azione si impegnava con foga, fino all’esaltazione. Artista purissimo e sensibilissimo, forse il più raffinato di tutti noi, si commuoveva fino alle lacrime davanti alla meraviglia delle isole e delle acque, come davanti ai capolavori dell’arte. Anima troppo sensibile non resse al peso dell’infelicità. La guerra, la prigione, la miseria aggravarono il turbamento morale dell’uomo. Fu poi la fine irreparabile di quella luminosa presenza”.
Due volte a Parigi e in Bretagna. Rientrato dal secondo soggiorno scopre che la moglie lo ha abbandonato per seguire lo scultore Oreste Licudis. Riacquistò vigore, nonostante gli stenti e la difficoltà di far valere la propria arte (“sentivo che dovevo vincere non solo la miseria ma la pittura del secolo che era morto”). Non solo ad Asolo trova i suoi paesaggi. Scrive: “Io sto su, bene in alto, in cima al Montello. E qui la sera e la mattina mi godo il panorama della libertà sconfinata. Potrei qui fare pittura in camicia e anche senza, non ci sono villeggianti, non ci sono che i miei due cani. Sono diventato l’uomo della natura, l’uomo del bosco”.
L’uomo della natura e del bosco, l’anno successivo, nel 1916, è chiamato alle armi e assegnato all’VIII Reggimento Bersaglieri, in provincia di Vicenza, ad Arzignano. Spedito al fronte nel ’17, viene fatto prigioniero e mandato a Restatt, in Germania: “Ho sofferto una prigionia allucinante”. Fatta di umiliazioni e di dolore. Uno dei suoi compiti era di dipingere sulle croci il nome dei compagni morti. Liberato nel 1918, troverà al rientro la propria casa distrutta e tutti i suoi lavori dispersi.
“La solitudine è ora straziante, cammino solo, parlo da solo. Il disinganno d’amore mi sanguina sempre. Sono con l’acqua alla gola. Basta basta”. Ancora: “Il cielo s’è oscurato per me, dentro di me è stata crocifissa la speranza, dentro di me ora c’è la follia”. Ancora a Nino Barbantini: “La mia mente non pensa più”.
Il suo ultimo quadro si intitola “Il cortile del manicomio” ed è del 1926. Vi entrerà per la prima volta in giugno, a Treviso. Poi tornerà in settembre. Nel ’27 verrà trasferito all’istituto psichiatrico dell’isola di San Servolo a Venezia, quindi, nel ’32, a Mogliano Veneto; infine, dal ’33, ancora a Treviso, all’ospedale di Sant’Artemio dove rimarrà sino alla morte. Se ne stava solo, nella biblioteca dell’ospedale, dove aveva un grande tavolo con due cassetti. Allora si mise a disegnare”. In realtà più che disegni erano segni ripetuti sul foglio, quasi fossero rondini in volo. “Com’è difficile morire, che fatica lasciarsi morire”. Ventun anni di vuoto interiore. Un numero che torna tristemente alla fine della sua biografia, poiché ventuno pare fossero anche le persone presenti al funerale.