Se Platone sale sulle montagne. Politica, comunità, turismo, futuro: cosa le terre alte dovrebbero fare, e cosa non fare, per riacquisire dignità e costruire il proprio futuro
Uno degli aspetti fondamentali che regolarmente si constata sulle montagne italiane è la drammatica carenza di “comunità”, sia in senso civico che politico. Altrettanto regolarmente, nella gran parte dei progetti di sviluppo turistico proposti per le terre alte la “comunità” è pressoché marginale se non del tutto assente e comunque considerata attraverso meri stereotipi funzionali. Eppure è proprio la dimensione montana, con le sue particolari specificità, a determinare un senso compiuto della “polis”, anche più di quella cittadina. Perché così spesso non si è più in grado di comprenderlo?
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Platone, il grande filosofo greco considerato tra i padri fondamentali del pensiero occidentale, scrisse che per quanto Atene, la sua città – polis, in greco -, fosse un luogo fatto di case, mercati, templi e teatri, erano gli ateniesi a fare la «polis». Cioè, di un luogo abitato e antropizzato, proprio in quanto tale, sono gli abitanti a determinarne l’anima, la quale dunque è l’elemento fondamentale che dà senso al luogo stesso, alla sua realtà, a ciò di cui si compone – case mercati templi e teatri.
E se il riferimento di Platone, come detto, era Atene, «polis» è nel principio qualsiasi luogo abitato «da una comunità di individui e famiglie tenute assieme da molteplici legami etnici, religiosi, economici, ecc.» come recita la definizione del termine. Comunità, non casualmente, è proprio il termine che venne scelto quando nel 1971 furono istituiti gli enti territoriali locali nati per l’amministrazione di territori geograficamente omogenei con funzioni sovracomunali, denominati appunto comunità montane. In effetti la montagna, ambito dotato di peculiarità geografiche e ambientali speciali e di conseguenti complessità, ha imposto all’uomo fin da quanto vi si stabilì stanzialmente secoli addietro la necessità di fare comunità ben più che altrove, al fine di sopravvivere alle condizioni difficili quando non ostili delle terre alte. La città si è fatta comunità attraverso modalità per così dire più spontanee, scaturenti dalla propria natura urbana (urbs, città in latino ma con accezione di «spazio nel quale si insediano gli edifici», differente dalla polis definita da Platone), almeno fino a che le trasformazioni della modernità e della post-modernità non abbiamo parecchio sfibrato le capacità di fare comunità delle città di oggi. In ogni caso quella urbana è nella sostanza una natura opposta a quella propriamente detta, nella quale invece si sviluppa la comunità di montagna e con la quale deve inesorabilmente rapportarsi in una relazione che, come accennato, abbisogna necessariamente di unire le forze di tutti per perseguire intenti comuni, in primis quelli di sussistenza. D’altro canto la montagna si fa comunità anche in senso antropologico, in forza della relazione che si costruisce tra il luogo con le sue peculiarità speciali - ben differenti da quelle cittadine e non solo per il paesaggio - e chi lo abita, e parimenti si fa comunità per le sue caratteristiche geomorfologiche, per come le valli montane avvolgano, racchiudano e proteggano, oppure isolino, le genti che le abitano, costrette nel bene e nel male a interagire in uno spazio comune ben definito, dunque altrettanto identitario.
Insomma, per tutto quanto rimarcato la montagna è viva, e si mantiene tale in ogni aspetto, se viva e vitale è la sua comunità; viceversa, stante la propria realtà difficile, non potrà sfuggire ai fenomeni di svigorimento socioeconomico e culturale che hanno colpito, e a volte devitalizzato, numerosi territori montani. Questa evidenza comporta che, riguardo qualsiasi intervento venga messo in atto sui monti e di qualunque genere – politico, amministrativo, economico, infrastrutturale, eccetera -, uno dei suoi punti fermi deve e dovrà sempre essere la comunità nel suo insieme, soggetto principale dei benefici derivanti dall’azione compiuta.
Ecco: si provi a rintracciare questo punto fermo, il conseguire benefici concreti e durevoli a vantaggio delle comunità dei territori montani, nei numerosi progetti di infrastrutturazione ad uso del turismo di massa e dei suoi modelli commerciali realizzati o proposti sulle montagne. Si constati se c’è la comunità, in quei progetti, se è presente non solo come oggetto economico ma soprattutto come soggetto sociopolitico. Ben difficilmente la si trova, o anche solo la si intravvede. Non c’è, non è contemplata o, per meglio dire, non è contemplabile, evidentemente.
Sia chiaro: che il modello turistico oggi imperante in montagna - nelle sue varie forme ma con identica sostanza - non sia in grado di fare comunità non è mancanza o colpa recente. Fin da quando il turismo è diventato fenomeno di massa invadendo innumerevoli vallate alpine e appenniniche adatte ai suoi scopi, subitamente le comunità di quelle vallate sono state spinte da parte, quando non calpestate. D’altro canto quel modello turistico galoppante sull’onda del boom economico prometteva ai montanari un benessere prima impensabile, dunque incontestabile, e così è stato per qualche lustro; tuttavia non rivelava ciò che pretendeva in cambio per ottenere i propri scopi: che non poteva ammettere la comunità, la polis montana, la quale invece doveva essere – e infatti è stata – disgregata e frammentata, sfilacciando e sovente spezzando i legami che la tenevano insieme, come recita la definizione del termine, per fare in modo che chiunque vi facesse parte potesse e dovesse porsi al servizio degli scopi del turismo e delle esigenze del turista, nuovo e indiscusso protagonista della realtà montana in quanto strumento funzionale a quegli scopi e ai tornaconti di chi ne beneficiava.
Un modus operandi che nel tempo si evoluto sempre più in questa sua missione, per la quale è stato strutturato un sistema politico-economico tanto efficace quanto esclusivo e monoculturale; tuttavia, dagli anni Novanta in poi, la montagna turistico-sciistica ha cominciato ad andare in crisi – per gli effetti sempre più evidenti del cambiamento climatico, per le conseguenti difficoltà economiche del comparto, per l’evolversi dei costumi, dei consumi e degli immaginari, per lo sviluppo di nuove sensibilità nei confronti delle terre alte e di nuove modalità di frequentazione che hanno reso lo sci un mercato ormai maturo e un’attività ludico-ricreativa non più preponderante sulle altre. Ma a quel sistema ormai divenuto solidamente monopolista che ne controllava le sorti non c’erano alternative, mai elaborate e sviluppate in una tale realtà esclusiva. Così ancora oggi, pur di fronte a problematiche e criticità sempre più palesi e difficili da gestire, la gran parte dei progetti di infrastrutturazione turistica persegue i soliti modelli nati decenni fa per una montagna che non esiste più e non tiene conto della comunità locale, non la considera se non come buona “giustificazione” alle azioni progettate («rilancio dei territori», «contrasto allo spopolamento», «valorizzazione»… ormai sono sempre le stesse cose che si leggono in quei progetti), punta sempre e solo a preservare (o a tentare di farlo) quel suo sistema monoculturale.
Questo continuo e irrefrenabile sgretolamento della polis, della comunità di montagna esposta ai colpi inferti dal turismo di massa ha tuttavia cagionato il deterioramento di un’altra comunità montana: quella politico-amministrativa, che al pari della prima negli anni recenti ha sempre più perso peso, importanza, influenza, capacità d’azione, autonomia. Di frequente oggi si sente rimarcare che le comunità montane in quanto enti locali – altrimenti ridenominate unioni montane – sono scatole vuote, prive di poteri, di fondi propri, quasi del tutto soggette alle volontà degli enti superiori. Soprattutto, sono soggetti che hanno ormai perso la facoltà di rappresentare efficacemente i propri territori, di essere comunità politica per le comunità sociali, civiche, umane di riferimento, il che ha messo in balìa le montagne, ancor più di quanto accadesse prima, di un potere i cui centri nevralgici sono lontani, a volte lontanissimi dalle terre alte e dalla realtà dei loro abitanti, e ciò non solo in senso geografico ma anche, e soprattutto, in senso culturale, nell’accezione più ampia del termine.
Con questa condizione di duplice carenza di comunità sofferta dalle montagne è chiaramente ben più facile che idee, iniziative, progetti palesemente decontestuali, impattanti e deleteri per i territori montani ai quali vengono prescritti e imposti siano effettivamente realizzati, così come è più facile che a volte siano gli stessi montanari a considerarli in modo positivo, essendo ormai sostanzialmente distaccati dall’idea di comunità (alla quale magari pensano di appartenere solo perché abitano il territorio relativo) e privi degli strumenti culturali per capire come stanno realmente le cose. Uno stato di spaesamento e alienazione d’altronde denunciato già anni fa da Annibale Salsa nel suo libro Il tramonto delle identità tradizionali o da Sergio Reolon nel suo Kill Heidi quando descrisse il «montanaro scompaginato».
È dunque quanto mai necessario il recupero e la rivitalizzazione della polis delle montagne, della sua dimensione di comunità civica, sociale, culturale e antropologica quanto di quella politico-amministrativa, di rappresentanza autentica, concreta e attiva per i propri territori, parimenti rivitalizzando una connessione democratica costante tra le due comunità per far che veramente la montagna possa, per quanto possibile, tornare ad avere il controllo della propria realtà e delle proprie sorti in una dimensione culturale rigenerata che finalmente possa svincolarsi da quei modelli “alieni” imposti quasi sempre attraverso modalità ingannevoli. I quali, sia chiaro, potranno ancora essere realizzati, se si riterrà il caso di farlo, ma che dovranno inevitabilmente mettere al centro delle proprie azioni la comunità, la polis della montagna, il suo benessere che è il benessere della montagna stessa in quanto territorio, paesaggio, luogo di vita e di costruzione del miglior futuro possibile. Un progetto di ampio respiro e vaste prospettive per ri-fare comunità, insomma: quanto di più indispensabile per le montagne, quanto di più inevitabile da subito e sempre più nei prossimi anni.