No, la direttiva “case green” non porterà allo spopolamento della montagna: una analisi della nuova normativa europea e degli impatti sulle terre alte
La normativa approvata non vincola i paesi dell’Unione a specifiche azioni, così come non obbliga i singoli proprietari ad adeguarsi agli obiettivi climatici tramite i risparmi privati. Efficientare energeticamente un edificio rappresenta, per i singoli proprietari, l’opportunità di vivere in un ambiente sano e di risparmiare sui costi di gestione e riscaldamento degli edifici. Riportare l’artigianato e il lavoro in montagna e garantire lavoro per i prossimi decenni è l’occasione di riportare abitanti e servizi nelle terre alte
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
«È una bellissima direttiva, ma alla fine chi paga?» Così il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha giustificato il voto contrario dell’Italia alla Direttiva 2018/844/UE EPBD (Energy Performance of Buildings Directive, conosciuta in Italia come “direttiva case green”) che mira a ridurre le emissioni di gas serra degli edifici al 2035 per poi azzerarle al 2050. Luca De Carlo, senatore cadorino, a febbraio 2023 dichiarò che “Il primo via libera alla proposta di revisione della direttiva sull'efficienza energetica degli edifici non prende in considerazione le peculiarità della realtà italiana sulle abitazioni. La conseguenza certa sarà lo spopolamento delle aree montane ed interne”.
Che impatti avrà questa nuova direttiva sulle tasche di chi vive nelle terre alte? E chi pagherà per l’efficientamento delle case in montagna? Cerchiamo di fare chiarezza su questi argomenti.
Di cosa parla la direttiva
L’iter per la direttiva EPBD inizia nel 2018. In Italia il settore del condizionamento invernale ed estivo degli edifici residenziali e non residenziali pesa circa il 17% delle emissioni totali di gas climalteranti. Secondo gli obiettivi comunitari e internazionali firmati anche dall’Italia queste emissioni dovranno raggiungere la neutralità a metà secolo.
Per ottemperare a questi obiettivi sarà necessario adeguare gli edifici esistenti tramite l’installazione di pompe di calore, di cappotti e la sostituzione degli infissi. In Italia, ad oggi, gli edifici in classe F o G (le classi inferiori della certificazione energetica, dove i costi di riscaldamento per i singoli cittadini sono maggiori, così come le emissioni di gas climalteranti) rappresentano circa il 55% degli edifici , poco meno di 3 milioni di immobili certificati. Questi edifici saranno i primi ad essere interessati dagli interventi di efficientamento ma la direttiva permette esenzioni e deroghe, come gli edifici di proprietà delle Forze Armate, quelli adibiti a luoghi di culto, i fabbricati temporanei utilizzabili per un massimo di due anni, quelli con una superficie utile inferiore ai 50 metri quadrati e le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all'anno o caratterizzate da un basso consumo energetico, senza contare gli edifici in ambito storico che risultano vincolati come siti di interesse storico o architettonico.
Efficientare energeticamente un edificio rappresenta, per i singoli proprietari, l’opportunità di vivere in un ambiente sano (evitando la presenza di muffe o impianti sottodimensionati) e di risparmiare sui costi di gestione e riscaldamento degli edifici. Chi potrebbe essere contro a questi interventi e permettere ai propri cittadini di continuare a vivere in strutture energeticamente fatiscenti?
Chi paga
I dubbi e le paure del Ministro dell’Economia arrivano dall’esperienza del Superbonus110% che, al 31 marzo 2024, è costata allo stato Stato di oltre 122 miliardi di euro e che ha portato ad un efficientamento di una parte molto misera del parco immobiliare italiano, trascurando anche le necessità sociali di povertà energetica e vulnerabilità climatica come appunto gli edifici a bassa classe energetica delle aree interne (basti pensare ai condomini o alle case singole costruire nella seconda metà del secolo scorso).
Sembra assurdo pensare che Bruxelles abbia approvato una normativa che prevede la riqualificazione dell’intero parco immobiliare di un continente senza porsi la domanda “ma chi paga?”. La normativa approvata non vincola i paesi dell’Unione a specifiche azioni, così come non obbliga i singoli proprietari ad adeguarsi agli obiettivi climatici tramite anche i risparmi privati.
A gennaio 2022, la Commissione Europea (con il contributo anche dell’agenzia italiana ENEA) ha emesso un documento che cercava di fare chiarezza sui vari fondi che i diversi Stati hanno a disposizione per adeguarsi agli obiettivi. In un’intervista a Open l’europarlamentare irlandese Ciarán Cuffe ha discusso i metodi di finanziamento di questa direttiva: “ la Banca europea per gli investimenti, la Banca centrale europea, i fondi del Recovery fund, i fondi strutturali e non solo. Tutte le strutture competenti sono già pronte a erogare i fondi necessari per supportare questa transizione. I soldi quindi ci sono. Sono i governi semmai a dover decidere quanti fondi chiedere e come spenderli. Mi auguro che il governo italiano darà la priorità a chi non può permettersi di pagare i lavori di ristrutturazione”.
La scelta di non far ricadere i costi della transizione energetica è una scelta politica (così come durante il governo Conte II si è scelto di non agevolare con il Superbonus le fasce di popolazione vulnerabile tramite un criterio di valutazione del reddito), per cui le parole di Giorgetti non sembrano giustificate ma fanno leva sui timori dei cittadini, fondati, di doversi sobbarcare anche questo costo ambientale.
Opportunità per la montagna
Quello che la classe politica a volte addita come “follia green” o come non economicamente fattibile, in realtà è un’opportunità per i settori economici montani.
Per abbattere le emissioni del settore immobiliare ci sarà bisogno delle conoscenze di svariati “lavori green” tra i quali: carpentieri, elettricisti, idraulici, ingegneri, falegnami, artigiani o geometri. Lo spopolamento della montagna, così come invocato dal senatore De Carlo, avviene principalmente per la mancanza di servizi essenziali a seguito di una mancanza di lavoro o di una gentrificazione turistica: un cane che si morde la coda. Riportare l’artigianato e il lavoro in montagna e garantire lavoro per i prossimi decenni (la normativa pone un obiettivo al 2050) è l’occasione di riportare abitanti e servizi nelle terre alte.
La scelta di abbandonare le comunità montane è una scelta politica: l’inazione climatica rimanda i problemi a chi amministrerà i territori nel futuro ma sposterà solo il problema per paura di perdere consenso elettorale. Garantire il diritto di abitazione, come riportato nella nostra Costituzione, a basso impatto ambientale, salutare e che garantisca un risparmio energetico ed economico ai propri cittadini è una mossa politica lungimirante. È tutta una questione di scelte.