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“Richieste da hotel in rifugio? Non è colpa dei merenderos”, il gestore del Passo Principe: “Vanno educati e sta al rifugista farlo”

"Chi sceglie di venire da me a piedi, anche se lo fa per la prima volta nella vita, già mi piace. I cosiddetti merenderos vanno educati e sta al rifugista farlo". E' una lunga riflessione quella di Sergio Rosi, gestore del Passo Principe: "Chi è abituato alla città probabilmente non conosce l'essenzialità ma il fatto che abbia deciso di andare in montagna dimostra un input positivo, ed è da quello che è necessario partire"

di
Sara De Pascale
20 marzo | 06:00
Questo articolo si rispecchia nei nove punti del Manifesto,
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.

SAN GIOVANNI DI FASSA. "I rifugi sono nati come punti d'accoglienza per chi va in montagna. Chi sceglie di venire da me a piedi, anche se lo fa per la prima volta nella vita, già mi piace. I cosiddetti merenderos vanno educati e sta al rifugista farlo". E' una lunga riflessione quella di Sergio Rosi, gestore del rifugio Passo Principe, con alle spalle un'esperienza in quota (letteralmente) lunga una vita: "Chi è abituato alla città probabilmente non conosce l'essenzialità ma il fatto che abbia deciso di andare in montagna dimostra che ha già avuto un input positivo ed è da quello che è necessario partire". 

 

Guarda non soltanto alla sua lunga esperienza sulle terre alte ma anche ai cambiamenti avvenuti negli ultimi anni (e in particolare dal Covid in poi) il gestore del Passo Principe, che svetta a quota 2.601 metri nel gruppo del Catinaccio. Quelle di Rosi sono considerazioni proposte già qualche anno fa e che vengono ribadite ora che si è tornati a parlare, forse con ancor più forza, di ciò che la parola rifugio significhi davvero. 

 

Che i tempi siano cambiati (anche e soprattutto sulle terre alte) è ormai evidente e a raccontarlo a Il Dolomiti nel corso del tempo, fra i tanti rifugisti, era stato anche Duilio Boninsegna, gestore del rifugio Pradidali: "I tempi sono cambiati sotto tanti punti di vista e non soltanto a livello ambientale. Anche il tipo di escursionisti che arrivano da noi sono molto diversi rispetto a un tempo: negli anni '90 venivano soprattutto 'esperti di montagna', che alla doccia nemmeno ci pensavano. Ora, invece, sono molti quelli che chiedono di potersi lavare, anche offrendosi di pagarci il servizio, non capendo quindi quale sia il reale nocciolo della questione: non di certo un 'problema' di soldi", spiegava qualche mese fa (QUI ARTICOLO). 

 

"Per alcuni il rifugio - si aggiunge Rosi - dev'essere minestrone e niente doccia, per altri invece ci si può permettere d'innovare al punto da arrivare a proporre pesce o saune a quota 2.000. Io direi che sto nel mezzo. Rifugio oggi può voler dire minestrone in quei luoghi in cui fare arrivare provviste è complesso, mentre in posti più facilmente accessibili si può pensare di proporre qualcosa in più - commenta -. Non intendo pesce o cocktail ma canederli o piatti un po' più elaborati, pur restando entro i confini della struttura in quota". 

 

Secondo il gestore del Passo Principe, infatti, ci sarebbero dei limiti oltre i quali si smette d'essere rifugio: "A parer mio sarebbe bene rivedere la dicitura ad esempio nel caso di strutture situate a quote basse, che potremmo chiamare 'case di montagna', o ancora per quei luoghi dove si arriva in macchina: rifugio è un punto d'approdo in quota raggiungibile a piedi". Per quanto riguarda invece il tipo di 'offerta', "può variare da struttura a struttura e a seconda della possibilità - spiega esprimendo la propria visione -. Se posso offrire il gelato o la doccia calda lo faccio. Se il mio rifugio è in mezzo al nulla e non ho acqua o grandi possibilità di rifornimento l'alpinista o escursionista dovrà accontentarsi di minestrone e accettare di non fare la doccia". 

 

"Inutile dare la colpa ai cosiddetti merenderos: chi fa la differenza è il rifugista che, fra i vari compiti, ha anche quello di istruire gli avventori e raccontare la montagna, spiegando loro cosa possono trovare e mostrando la bellezza dalla condivisione e dell'essenzialità - prosegue -. Negli anni mi è capitato di imbattermi in escursionisti sopresi del fatto che in montagna ci si salutasse o che non sapevano che in rifugio ci si potesse dormire. O, ancora, che si stupivano del fatto che in quota i tavoli o le stanze si condividono. A me le persone così piacciono già solo per il fatto che si sono messe in gioco venendo da me a piedi".

 

Come invertire quindi la rotta (fra rifugi che smettono d'essere rifugi ed escursionisti sempre meno preparati)? "Sarebbe necessario anzitutto rivedere alcune leggi, anche se dobbiamo ammettere che in Trentino siamo davvero fortunati. Togliere, ad esempio, la dicitura 'rifugio' alle strutture che propongono comfort che coi rifugi non hanno nulla a che vedere e, soprattutto, istituire dei corsi per rifugisti, come già si fa in Francia o in Valle d’Aosta". 

 

"Il nostro è un lavoro che ne racchiude tantissimi ed è evidente che non tutti noi siamo in grado di gestire le varie mansioni, una su tutte quella di istruire gli escursionisti.  Come detto, a parer mio in testa a tutto è la figura del gestore a fare la differenza, spiegando che in quota si cerca di dare il massimo creando il minimo impatto: tutto dipende da dove il rifugio è ubicato. Innoviamo laddove possiamo ed evitiamo di stravolgere l'ambiente se non necessario: mi è stato proposto di fare la teleferica per farmi arrivare le provviste in struttura e avrei ottenuto tutti i permessi per farla ma ho rifiutato perché rovinerebbe il panorama all’ospite, dovendo ‘correre’ i cavi fra il sentiero e il Re del Catinaccio, ossia l’Antermoia", conclude. 

 

"Il cambiamento possiamo farlo ma deve partire in primis da noi rifugisti, che dobbiamo avere sempre la voglia e la pazienza di spiegare e raccontare: a volte potrà essere faticoso ma per me è il lavoro più bello del mondo". 

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