Acqua delle montagne e concessioni idroelettriche: da potenziale risorsa a dinamica di sfruttamento
A fine 2023 sono scadute molte importanti concessioni idroelettriche per l’uso delle acque di montagna: l’inazione politica alla base di tale situazione permette alle aziende concessionarie di non pagare buona parte dei canoni che dovrebbero versare ai territori montani. Ma questo non è la sola conseguenza che le terre alte devono subire
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Uno degli utilizzi più importanti e per molti versi emblematici delle risorse naturali derivanti dai territori montani è senza dubbio quello dell’acqua per la produzione di energia idroelettrica: una delle forme di antropizzazione delle terre alte che più ha modificato il loro paesaggio e ne ha caratterizzato la storia fin dai primi del Novecento, quando iniziarono a comparire le prime grandi dighe nelle vallate montane.
Oggi la produzione idroelettrica rappresenta una componente fondamentale per la copertura del fabbisogno energetico nazionale: ammonta a circa il 15% del totale, e rappresenta oltre il 40% della produzione da fonti rinnovabili. Gli impianti di Piemonte, Lombardia e le provincie di Trento e Bolzano producono da soli quasi i due terzi dell’intera energia idroelettrica italiana. Ma è anche una produzione strategica: infatti la capacità dei bacini artificiali di conservare l’acqua permette alle aziende dell’energia che li gestiscono una rapida e modulabile produzione di energia ben più di quanto si possa ottenere con le altre energie, sia “tradizionali” che rinnovabili, sopperendo così alle eventuali mancanze di queste rispetto ai fabbisogni richiesti dalla rete di distribuzione.
Le aziende che producono energia idroelettrica sono tutte società per azioni – anche Enel, nonostante il suo principale azionista sia lo Stato italiano con il 23,6% del capitale sociale – e dalla loro attività ovviamente ricavano utili, ma l’acqua che utilizzano per le loro produzioni è un bene pubblico. Per tale motivo le aziende devono pagare un canone alle regioni, che funge anche da compensazione monetaria ai territori in cui si trovano le infrastrutture di produzione – come dighe, bacini, condotte, centrali – che formalmente accordano l’uso delle loro acque tramite le concessioni idroelettriche. Le piccole derivazioni, cioè gli impianti con una potenza media inferiore a 3 megawatt, sono di competenza provinciale, ma chiaramente le grandi dighe alpine e appenniniche sono tutte grandi derivazioni che superano tale limite.
Ebbene, nel 2024 sono venticinque anni da che molte delle più importanti concessioni idroelettriche risultano scadute. Come racconta “Il Post” in questo articolo, lo Stato avrebbe dovuto definire già nel 1999 il rinnovo di tali concessioni con apposite linee guida, ma non lo ha fatto. Di contro, nel 2019 una nuova legge nazionale ha trasferito la competenza dallo Stato alle Regioni, che hanno così dovuto imbastire le procedure per i rinnovi o le riassegnazioni, tuttavia ad oggi ancora ferme. Se, per qualche motivo, le concessioni non saranno rinnovate si dovranno aprire delle gare per la riassegnazione, come peraltro prevedono sia le normative europee che la legge italiana sulla concorrenza approvata nel 2022. Fatto sta che tra discussioni parlamentari, rimandi, ritardi, la questione resta ancora indeterminata: ciò comporta che le aziende dell’energia sono in ritardo con il pagamento di grosse somme relative ai canoni di concessione. La Lombardia, che da sola produce il 27% dell’energia idroelettrica italiana, dovrebbe incassare 104 milioni di Euro: soldi destinati per il 60% alle provincie e per il 100% della propria quota a quella di Sondrio in forza della sua geografia quasi totalmente montana, da reinvestire in opere pubbliche. Una somma che farebbe sicuramente molto comodo agli enti locali e alle comunità che abitano le montagne.
Ma il danno economico per le casse pubbliche generato dai mancati introiti dei canoni di concessione non pagati dalle aziende energetiche non è la sola conseguenza materiale del ritardo istituzionale nel loro rinnovo: c’è un’altra questione che vi deriva, apparentemente secondaria ma per certi aspetti anche più critica della prima e che interessa primariamente i territori montani. Questa si coglie bene dall’“Indagine conoscitiva sulle prospettive di attuazione e di adeguamento della Strategia Energetica Nazionale al Piano Nazionale Energia e Clima per il 2030” presentata il 3 dicembre 2019 nel corso dell’audizione della X Commissione Attività Produttive del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nella quale si legge:
«Occorre rilevare che il miglioramento delle condizioni manutentive e di sicurezza o il potenziamento della capacità degli invasi idroelettrici, pur avviato soprattutto in termini progettuali dai concessionari di derivazione, è allo stato rallentato da alcuni problemi normativi o di applicazione normativa riguardante l’assetto della disciplina delle concessioni idroelettriche e quello della normativa ambientale in materia di dighe esistenti. […] Incertezze nelle norme in materia di concessioni di derivazione per uso interessata dal 1999 (D. Lgs. 79/1999) al 2019 (D.L. 135/2018 conv. L. 12/2019) da numerosi interventi del Legislatore, della Corte Costituzionale e della Commissione Europea. Tali incertezze, connesse prevalentemente al regime delle proroghe delle concessioni (2029; 2010-17) e alle modifiche nella disciplina di assegnazione, con rinvio a normazione secondaria non ancora definita, rendono difficoltosa la programmazione di interventi di manutenzione straordinaria ovvero danno motivo reale o presunto ai concessionari uscenti nel differirla.»
In buona sostanza, il mancato rinnovo delle concessioni idroelettriche non solo toglie risorse fondamentali ai territori di montagna ma influisce negativamente anche sullo stato di manutenzione e di efficienza degli impianti, a causa di un atteggiamento delle aziende che li gestiscono, per come viene rilevato dall’indagine, non esattamente virtuoso, e conseguenza diretta della latitanza politica sul tema.
Sia chiaro: non si sta affermando – e non lo asserisce l’indagine - che i gestori degli impianti idroelettrici mettano a rischio le comunità che abitano i territori che li ospitano eludendone la manutenzione ordinaria basilare, peraltro ampiamente imposta e strettamente regolata dalle normative vigenti, quella delle grandi dighe in particolar modo. Tuttavia da una parte il mancato pagamento dei canoni ai territori cui spetterebbero per l’altrettanto mancato rinnovo delle concessioni, dall’altra l’elusione delle spese che i gestori idroelettrici dovrebbero sostenere per tutte le manutenzioni straordinarie, in un contesto che negli ultimi tempi ha visto le aziende del settore aumentare in maniera notevole i propri utili grazie alla favorevole (per loro, meno per gli utenti) congiuntura economica del mercato energetico, rende ancora più evidente, e sotto certi aspetti più discutibile, lo squilibrio a danno dei territori montani, che formalmente possiedono l’acqua e gioco forza la concedono a quelle aziende nonché a tutti gli altri soggetti che abbisognano delle risorse idriche pubbliche, senza di contro ricevere quanto loro dovuto.
Non resta che sperare, al netto delle modalità attraverso le quali la vertenza sulle concessioni idroelettriche si potrà risolvere – con i rinnovi o con la loro messa a gara – che i fondi spettanti ai territori montani possano essere riconosciuti al più presto dalle aziende dell’energia. Sarebbe un tesoretto finanziario dovuto e quanto mai prezioso, per i bisogni e le necessità quotidiane delle comunità che abitano le nostre montagne.