La montagna muore dove comanda la pianura, ma oggi le terre alte hanno l’occasione di riconquistare autonomia e rinascere: intervista a Maurizio Dematteis
Da quindici anni l’Associazione Dislivelli, con base a Torino, rappresenta una delle realtà italiane più avanzate e innovative nei campi della ricerca, dello studio e della comunicazione nei riguardi dei territori montani. Una vera e propria eccellenza nazionale, dotata peraltro della capacità di mettere a terra la propria attività in progetti e iniziative di grande concretezza e valore. Ne parliamo con il direttore di Dislivelli, Maurizio Dematteis
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Dislivelli nasceva esattamente quindici anni fa, nella primavera del 2009, allo scopo di «favorire l’incontro e la collaborazione di competenze multidisciplinari diverse nell’attività di studio, documentazione e ricerca, ma anche di formazione e informazione sulle terre alte». Come si è sviluppata l’attività dell’associazione in questi anni e in che modo si è evoluta quella missione originaria fino a oggi?
Dislivelli dalla sua fondazione opera all'interno di un contesto multidisciplinare, caratterizzato soprattutto dalla geografia, l'urbanistica, l'architettura e l'antropologia dei territori montani. Rappresentano tale interdisciplinarietà i soci ed i componenti del comitato scientifico. Per la divulgazione scientifica dei risultati dei progetti di ricerca è stata fondata una serie all'interno delle Edizioni Franco Angeli, nominata "Terre Alte", dotata anch'essa di un comitato scientifico composto da 7 docenti universitari afferenti a diverse università e politecnici. Il punto di forza qualificante di Dislivelli è la capacità di sommare competenze trasversali e interdisciplinari tra saperi diversi che attengono il territorio della montagna. Un portale web (www.dislivelli.eu) con rivista periodica permette di mantenere attiva e costante la comunicazione con gli iscritti e il pubblico interessato.
I macrotemi affrontati da Dislivelli in questi 15 anni di attività sono, in estrema sintesi, quello dei “Nuovi montanari” sui nuovi abitanti e la demografia delle Alpi (F. Corrado, G. Dematteis e A. Di Gioia (a cura di), Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli editore 2014); "I due turismi delle Alpi", sul cambiamento della cultura turistica (con il progetto Sweet Moutains); "Montanari per forza", su migranti e richiedenti asilo in montagna (M. Dematteis, A. Di Gioia, A. Membretti, Montanari per forza. Rifugiati e richiedenti asilo nella montagna italiana, Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli Editore 2018); "Intermont", sulle relazioni città-montagna (G. Dematteis, F. Corrado, A. Di Gioia, E. Durbiano, L’interscambio montagna città. Il caso della Città Metropolitana di Torino, Terre Alte-Dislivelli, Franco Angeli Editore 2017).
Il tutto promosso e divulgato attraverso la redazione del suo periodico mensile, che Dislivelli da 15 anni propone a soci e simpatizzanti, oltre 3600 iscritti più i lettori su social e blog.
Come sono cambiate invece le montagne, da quando voi di “Dislivelli” avete cominciato a osservarle, studiarle e a fare cose nei territori montani?
Le montagne vedono al loro interno un lento e continuo cambiamento che spesso però non viene raccontato, e negli ultimi 20 anni sono rimaste vittime di stereotipi e preconcetti. Le montagne del nostro Paese infatti negli ultimi 15 anni sono state oggetto di una rivalutazione economica, ambientale, culturale e sociale importante. Viviamo oggi un momento storico particolare in cui i territori di cui si occupa Dislivelli hanno le carte in regola per vender cambiare la loro percezione marginale, grazie a progetti di sostenibilità, valorizzazione di risorse naturali eccetera. «Un margine che si fa centro», per dirla con Aldo Bonomi, territori che si riorganizzandosi per «intercettare i flussi» di persone, cose, finanze, uscendo dalla loro posizione marginale. Eppure questo fenomeno in atto in alcune parti delle aree interne nazionali non trova oggi strumenti adeguati per essere raccontato. È per questo che Dislivelli, oltre al lavoro di ricerca e documentazione, insiste su una comunicazione più equilibrata possibile di ciò che avviene sui territori montani, una comunicazione che possa in ultima analisi andare a influenzare l'opinione pubblica nazionale, che oggi ancora poco sa di questi territori e che si alimenta nella maggior parte dei casi di vecchi stereotipi (“Lassù gli ultimi”, “Il mondo dei vinti” eccetera). Dislivelli da sempre cerca di promuovere un dibattito serio sul futuro della montagna, evitando di accettare la logica appiattita unicamente sulle reti di big city che tagliano fuori gran parte del territorio. Questa è una sfida che l'Associazione Dislivelli, insieme ad altre realtà, rinnova tutti gli anni.
Le terre alte per molti aspetti sembrano permanere ostaggio di stereotipi incrollabili da un lato e di aspettative trascurate dall’altro: una situazione che contribuisce a non risolvere e semmai a rendere croniche alcune loro criticità. Cosa manca alla montagna, o di cosa avrebbe rapidamente bisogno, per finalmente svincolarsi da questa situazione e riacquisire la dignità che le spetta nel divenire della realtà del nostro paese?
Una rappresentanza politica. Annibale Salsa, antropologo alpino e past presidente del Club Alpino Italiano, dieci anni fa l’ha detto senza tanti giri di parole: «Con la Legge Del Rio è finito il governo della montagna». Con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (cd. “Legge Delrio”) infatti è stata realizzata un'ampia riforma in materia di enti locali, cancellando le comunità montane e prevedendo la ridefinizione del sistema delle province con l'istituzione delle città metropolitane, e introducendo una nuova disciplina in materia di unioni e fusioni di comuni che non sempre sono riusciti a supplire la mancanza delle vecchie comunità montane. Ricordo che alla presentazione di una pubblicazione tenutasi nel 2016 (G. Cerea e M. Marcantoni (a cura di), “La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano”, Franco Angeli-Tsm 2016), Mauro Marcantoni uno degli autori e allora direttore generale della Trentino school of management, disse: «È indubbio che la montagna muore dove comanda la pianura». Suggerendo, per invertire la tendenza allo spopolamento e sostenere la tenuta dei territori montani, maggiore organizzazione e autonomia alle terre alte. Sicuramente l’autonomia, come ci spiegano trentini, valdostani e altri territori, sarebbe una strada virtuosa. Ma già poter avere una rappresentanza intermedia, che possa permettere ai territori montani di sedersi al tavolo delle regioni per promuovere opportunità e contrastare i limiti di area vasta montana non sarebbe male. Mentre oggi gli ultimi avamposti di amministrazione locale sono o comuni, spesso comuni polvere, strutture troppo piccole e deboli per potersi occupare di progetti comuni e strategie di area montana vasta.
A proposito di stereotipi montani, e della necessità invocata da più parti di cambiare gli immaginari e i paradigmi sui quali tutt’oggi viene elaborata la considerazione collettiva delle montagne nonché certa parte della loro gestione politico-amministrativa, Dislivelli fin dalla sua nascita ha fatto di questo tema uno dei suoi presupposti fondamentali, proponendo una visione innovativa se non avveniristica della realtà montana tutt’oggi più unica che rara in Italia. Come si può portare e comunicare questa necessaria nuova visione al grande pubblico che frequenta le montagne, e magari a conferirle finalmente un peso politico più concreto e diffuso?
Attraverso la promozione di una visione di metromontagna. Certo il termine coniato da Dislivelli qualche anno fa non è dei più felici ne tanto comunicativo, ma in attesa di trovarne uno più accattivante proviamo a capire di cosa si tratta. Sono metromontani quei territori, in parte urbani e in parte montani, portatori di valori tra loro complementari, che sviluppano al loro interno rapporti di prossimità e scambi reciprocamente vantaggiosi, orientati al superamento degli squilibri nelle dotazioni ambientali, nello sviluppo economico, nell’occupazione e nell’accesso ai servizi.
Le politiche e le strategie metromontane hanno come principale campo di intervento quindi le relazioni di prossimità e gli scambi che legano le città ai loro hinterland montani. In generale il loro scopo è quello di ridurre le diseguaglianze di reddito, di cittadinanza e di qualità della vita, trasformando le differenze ambientali, culturali e sociali della città e della montagna in forme di “interdipendenza virtuosa” in cui l’una fornisce all’altra quello che le manca e di cui ha bisogno. In generale la città ha bisogno di certi servizi eco-sistemici di cui dispone ampiamente la montagna, come l’approvvigionamento idrico, la regolazione e la qualità delle acque, la fruizione di ambienti naturali per il tempo libero con le attività connesse. Per la montagna la città vicina è un mercato di sbocco dei suoi prodotti agro-alimentari e silvo-pastorali, inoltre ad essa la montagna si rivolge per i servizi sanitari, scolastici, commerciali e tecno-professionali di livello superiore, oltre che per trovare lavoro pur continuando ad abitare nelle terre alte, quindi con spostamenti pendolari oggi sempre più affiancati dal lavoro a distanza
Quando si parla di relazioni metromontane ci si riferisce, sia a rapporti diretti con le città metropolitane, sia - più sovente - a legami mediati da città prossime alla montagna, che fanno da tramite con le metropoli e facilitano così l’accesso dei territori montani alle reti globali dell’informazione, della cultura, dell’economia, della tecnologia eccetera.
In Italia le situazioni di prossimità metromontana sono la regola: quasi tutti territori delle città metropolitane comprendono parti montane e la grande maggioranza dei capoluoghi di provincia e dei Comuni con più di 50.000 abitanti distano meno di 15 chilometri dalla montagna. La metromontagna può essere oggetto di politiche pubbliche di coesione e sviluppo di diverso livello, a partire da quello locale fino a quello nazionale. E’ interessante notare che le prime a farsene carico sono state le amministrazioni locali. Oggi esistono già assessori con deleghe alla metromontagna nella Città metropolitana di Torino e nel Comune di Cuneo.
Lei, insieme a Michele Nardelli, ha scritto uno dei libri più significativi sulla montagna contemporanea, “Inverno liquido”, incentrato sul tema della fine dello sci di massa nell’era del cambiamento climatico ma che in effetti rappresenta un’indagine a tutto tondo sulla realtà attuale della montagna italiana. Per la cui economia il turismo è innegabile che rappresenta e rappresenterà ancora una componente fondamentale benché non più preminente come anni fa, ma che di contro continua a operare attraverso modelli e strategie che spesso appaiono quanto meno superati. Come pensa che andranno le cose al riguardo nei prossimi anni?
Se fino ad oggi il turismo di massa dello sci da discesa in montagna (il presente) pur coinvolgendo solo un basso numero di comuni in quota, è stato considerato l’unico indotto capace di sostenere l’economia turistica di montagna (tal volta erroneamente), da una decina di anni gli si è affiancato l’indotto del turismo dolce (il futuro) che vive una crescita costante a fronte della contrazione del mercato dello sci, e coinvolge pressoché tutto il territorio montano nazionale.
Si tratta di un’offerta turistica con una proposta di accoglienza esperienziale e attenta al rapporto con l’ospite, capace di coinvolgere tutti gli attori e le risorse che ogni singolo territorio possiede in tutte e quattro le stagioni dell’anno: attraverso le attività outdoor, l’enogastronomia, il wellness, l’artigianato e le offerte culturali.
È una nuova forma di turismo lento, con un approccio di curiosità e di scoperta per i territori esplorati, al passo con gli attuali orientamenti della cultura del turismo del terzo millennio, che vede nella passione per le esperienze “vere” e nella sostenibile per il territorio, per chi lo vive e per chi lo frequenta, le sue caratteristiche peculiari. Per fare un esempio a me vicino, partiamo dalla situazione piemontese: il 45% della superficie dell’intera Regione Piemonte è montana, con 400 km di montagne, 30 sistemi vallivi, 553 comuni alpini e 41 unioni di comuni. Se il turismo di massa coinvolge oggi 46 comuni piemontesi, il turismo dolce li coinvolge tutti e 553.
Ma il fatto che ancora oggi il turismo di massa invernale sia considerato erroneamente l’unico indotto capace di sostenere l’economia di montagna non è affatto trascurabile, perché grazie a questa immagine stereotipata il turismo di massa riesce a catalizzare l’attenzione pressoché totale del sostegno pubblico al turismo in montagna. Ed è proprio qui che a mio parere bisogna cercare di apportare un cambiamento, lavorando alla promozione di una nuova immagine del rapporto tra città e montagna, dove il turismo di massa, che continuerà ad esserci, si affianca a un turismo dolce non alternativo, ma differente, un’evoluzione culturale nel rapporto tra uomo e territorio che coinvolge residenti, turisti, produttori, imprenditori, amministrazioni pubbliche e tutti gli attori che a vario titolo insistono su un territorio, uniti nelle ricerca della gestione sostenibile di un paesaggio montano.
Oggi non tutti cercano la stessa cosa in montagna, e questo è uno dei motivi per cui il turismo di massa è destinato a persistere, insieme ad altri due motivi: in primis il turismo dolce è in grado di assorbire solo una parte della richiesta di montagna (altrimenti si snatura), inoltre alcuni luoghi non sono più in grado di esprimere offerta di turismo dolce perché troppo compromessi con le infrastrutture. Nulla vieta però che accanto a questi luoghi destinati a specializzarsi nell’accoglienza di un turismo di massa, e che nei prossimi anni dovranno sforzarsi a pensare anche ad un’offerta turistica in assenza di neve, possano convivere offerte di turismo dolce. Magari integrate, magari capaci poco alla volta di agire sulla cultura turistica degli ospiti, trasformandone alcuni da turisti di massa a turisti dolci.
Sta di fatto che nel prossimo futuro la situazione dell’offerta turistica in montagna si polarizzerà sempre più tra due modelli, quello della città in montagna (turismo di massa) e quello del turismo dolce. Il turismo dolce deve essere visto come attività economica che, promuovendo e valorizzando le risorse naturali, storiche, culturali e sociali, incentiva l’occupazione e lo sviluppo locale. Un turismo dolce che in molte aree rappresenta una delle opportunità - talvolta l’unica – di vivere e lavorare nella propria regione. Lo sviluppo sostenibile di questo settore costituisce quindi un’importante sfida per garantire la sostenibilità economica senza rischiare di compromettere le risorse. La mobilità e il suo impatto sul cambiamento climatico, la conservazione delle risorse naturali (acqua, suolo, ambienti sensibili, eccetera), la riduzione dell’inquinamento e dei rifiuti, la gestione equilibrata sia nel tempo, sia nello spazio dei flussi dei visitatori e il rispetto per le tradizioni sociali e culturali sono solo alcune delle sfide che occorre affrontare.