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Piccoli: "Il 2000 l'anno migliore. Pantani? A Campiglio sbagliò, poteva cavarsela con 15 giorni di sospensione"

Una vita di vittorie, sacrificio e tante fughe, che alla Vuelta gli valsero il soprannome di Pistolero. Intervista all'atleta trentino: dalla sua squalifica per doping all'amicizia con il Pirata, passando per un rimpianto: la mancata convocazione azzurra nell'anno migliore.

Il Pistolero Mariano Piccoli e il Pirata Marco Pantani
Pubblicato il - 24 settembre 2016 - 10:13

TRENTO. Dici “Pistolero” e subito pensi ad Alberto Contador, ma in realtà il “primo” ciclista insignito di tale soprannome fu Mariano Piccoli. Correva l’anno 1997 e il trentino, professionista da cinque anni, partecipava per la prima volta alla Vuelta con la maglia della Brescialat: il 15 settembre Piccoli vinse la tappa che da Cordova portava ad Almendralejo e, il giorno successivo, lo speaker ufficiale della manifestazione gli disse: “Ti chiamerò Pistolero”, perché vai sempre in fuga e all'attacco”.

 

Da, allora, l’ex professionista trentino diventò per tutti, all'interno e all'esterno del gruppo, il “Pistolero”, un gregario generoso che non mollava mai la presa, pronto ad infilarsi in qualsiasi fuga, anche in quelle chiamate delle “prima ora”.

 

Mercatone Uno, Brescialat, Lampre e Acqua & Sapone sono state le squadre del 46enne di Villazzano, pronto a tornare nel ciclismo che conta appena la vicenda giudiziaria che l’ha visto protagonista negli anni scorsi si chiuderà definitivamente.

 

Partiamo proprio da qui: la vicenda giudiziaria che l’ha visto protagonista è quasi finita?

“Direi di sì - esordisce l’ex “pro” trentino, oggi titolare del "Punto Bici", punto di assistenza e riparazione di biciclette al ponte di San Lorenzo a Trento - e, aggiungo, per fortuna. Dopo sette anni d’indagine e due di dibattimento, il Tribunale di Mantova mi ha assolto, come del resto quasi tutti gli altri indagati, perché “il fatto non sussiste”. Adesso aspetto la chiusura del processo d’Appello a Trento e poi sarò pronto per tornare in pista. Cosa farò? Tornerò in ammiraglia: qualche contatto c’è già stato, il mio cartellino da direttore sportivo è “timbrato” e non vedo l’ora di rientrare nel “mio” mondo”.

 

Dove?

E’ presto per fare nomi (“voci di corridoio” raccontano che Piccoli è stato contattato da un’importante squadra femminile, ndr)”.

 

Da quello che sarà a quello che è stato: Mariano Piccoli è soddisfatto della sua carriera da atleta?

“Complessivamente sì. Ho partecipato per tredici volte al Giro d’Italia, a due Tour de France e otto Vuelta, centrando qualche risultato prestigioso. Penso al trionfo di Lenzerheide nel ’95 al Giro e alla tappa finale della corsa rosa, quella finale che da Torino portava a Milano nel 2000 e alle tre tappe conquistate alla Vuelta, una nel ’97 e due nel 2000 che, a conti fatti, è stato senza dubbio il mio anno migliore. Ho vinto per due volte la classifica scalatori e una maglia ciclamino (oggi rossa, ndr) al Giro. Non posso lamentarmi, anche se un rimpianto c’è”.

 

Lo diciamo noi: la maglia azzurra della Nazionale manca alla sua personalissima “collezione”.

“Infatti e mi dispiace, perché il sogno di ogni atleta è quello di vestire la casacca azzurra e, soprattutto nel 2000, pensavo veramente di avercela fatta. Parlai con l’allora Ct Martini prima della Vuelta e lui mi disse: “Vediamo come va in Spagna”. Beh, vinsi due tappe, unico italiano a conquistare successi parziali in quell'edizione della gara spagnola, e poi… rimasi a casa. Non ho paura a dirlo: fu una decisione “politica" che poco aveva a che fare con lo sport. In quegli anni, infatti - se la ride Piccoli - comandava il cosiddetto “clan dei toscani” e ci fu poco da fare”.

 

Il successo più bello della sua carriera?

“La prima vittoria al Giro d’Italia. Il tappone dolomitico, che dalla Val Senales portava a Lenzerheide, era di quelli che “tostissimi”. Feci una grande impresa e, alla fine della corsa, conquistai anche la maglia verde”.

 

Mariano Piccoli oggi ha 46 anni, tanti quanti ne avrebbe anche Marco Pantani. Sono passati dodici anni dalla scomparsa del “Pirata” e, tutt’oggi, la vicenda ha tanti “buchi neri”. Che idea si è fatto a riguardo?

“Io sono convinto che la scomparsa di Marco, che conoscevo bene, non abbia nulla a che vedere con il mondo del ciclismo. L’immagine di Marco in gara è quella del capitano coraggioso della Mercatone Uno, epicentro di quella “macchia” gialla che stava quasi sempre in cima al gruppo. I compagni di squadra lo “proteggevano” sempre e comunque. Lontano dalle corse, invece, Pantani era una ragazzo piuttosto solo, circondato da poche amicizie. Purtroppo “sbagliate”.

 

Lei c’era nel 1999 a Madonna di Campiglio: che idea si è fatto di quella vicenda?

“Io sono dell’idea che quella volta Pantani sbagliò. Mi spiego: complotto o non complotto, e cosa sia successo realmente non lo sapremo mai e lui avrebbe dovuto “lasciar perdere”. Detto così suona male ma, in realtà, se la sarebbe cavata con 15 giorni di sospensione, sarebbe andato al Tour e, per come stava, lo avrebbe vinto e, probabilmente, oggi sarebbe ancora qui con noi”.

 

 

 

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