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“Ritorno al passato”: il podestà fascista e l'assalto del regime alle autonomie comunali

Il 4 febbraio 1926 il regime fascista istituiva la figura del podestà, eliminando ogni forma di elettività delle cariche nei Comuni al di sotto dei 5000 abitanti. Ben presto la riforma sarebbe stata estesa anche alle amministrazioni locali più grandi, ponendo fine alle libertà comunali in nome di un principio monocratico e autoritario. Continua la rubrica “Cos’era il fascismo”

Foto tratta dal web
Di Davide Leveghi - 06 febbraio 2022 - 11:42

Mostruoso e immorale” (dal discorso del 21 novembre 1925 di Maurizio Maraviglia, relatore della Commissione parlamentare sulla legge 237. Gli aggettivi si riferiscono alla possibilità che gli enti locali perseguano fini politici diversi da quelli del governo centrale)

 

Il Medio Evo Italiano, coi suoi Podestà prescelti con somma cura dai poteri centrali, e dipendenti direttamente da quel potere stesso, ci aveva indicato un metodo di governo che i tempi nuovi sembrava non dovessero più rivedere; invece, il sistema antico, rivivificato e trasformato dalle necessità moderne, si è dimostrato perfettamente rispondente allo scopo di dare ai Comuni un governo sveltito, capace e produttivo” (da I primi podestà del Regno d’Italia, a cura del Comitato italiano di propaganda all’estero, 1928)

 

TRENTO. Il 4 febbraio 1926, il re d’Italia Vittorio Emanuele III firmava, dopo l’approvazione da parte delle Camere e “per grazia di Dio e volontà della Nazione”, la legge numero 237, con cui veniva istituita la figura del podestà. Nei Comuni al di sotto dei 5000 abitanti, ogni carica elettiva, dal sindaco al consigliere comunale, veniva sostituita da un organo nominato con decreto reale e che concentrava in sé tutti i poteri. Ad assisterlo, se necessario, il prefetto avrebbe potuto nominare una Consulta municipale – chiamata in causa, secondo la legge, solo per dare “parere su tutte le materie che il Podestà crede di sottoporle”.

 

Assaltate nei lunghi mesi precedenti alla Marcia su Roma (QUI l’articolo), diffusamente sciolte dopo la presa del potere (QUI l’articolo), le amministrazioni comunali subivano così un colpo fatale. A chiudere il cerchio, in virtù anche delle richieste dei settori più oltranzisti del fascismo, ci avrebbe pensato infine l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i Comuni del Regno, avvenuta in seconda battuta nel settembre di quell’anno.

 

Questa riforma, pertanto, rappresentò un esito naturale dell’atteggiamento fascista nei confronti delle libertà comunali. Riesumando dal passato, ed in particolare dall’Età comunale, la figura del podestà, il regime introduceva proprio la carica decisiva per eliminare ogni forma d’autonomia, riorganizzando ogni livello dello Stato secondo un principio monocratico e autoritario. Nel 1926, dopo anni di attacchi alle amministrazioni invise agli interessi fascisti, “i tempi – come scrive lo storico bolzanino Andrea Di Michele nel suo L’italianizzazione imperfetta – apparivano ormai maturi per giungere ad una coincidenza piena e ‘totalitaria’ tra governo nazionale ed amministrazioni comunali”.

 

Ma in cosa consisteva, precisamente, questa riforma? E a cosa era indirizzata? La legge 237 affidava alla carica del podestà – dapprima nei soli Comuni al di sotto dei 5000 abitanti, poi anche agli altri – i poteri una volta detenuti dal sindaco e dal Consiglio comunale. In carica per 5 anni, nominato dal re e con la possibilità di essere riconfermato, il podestà doveva rispondere a determinati criteri: uomo, maggiorenne (al tempo quindi con almeno 21 anni), mai condannato per delitti contro la sicurezza dello Stato, in possesso di un diploma di scuola media superiore, avrebbe potuto fare eccezione a quest’ultimo requisito solamente se avesse partecipato alla guerra ’15-’18 con il grado di ufficiale o sottufficiale o qualora avesse “ricoperto, per non meno di un anno, con capacità e competenza amministrativa, l’ufficio di sindaco o di commissario regio o prefettizio o di segretario comunale”. La loro designazione, dunque, doveva essere basata "sulle capacità".

 

Capacità di comandare, in quanto ex ufficiale, capacità di garantire una continuità della classe dirigente, laddove il fascismo, proclamandosi profondamente rinnovatore, finiva però per riciclare il vecchio ceto amministrativo dell’Italia liberale. Misura, quest’ultima, contradditoria ma necessaria per ovviare in poco tempo alle migliaia di podestà da piazzare in oltre 7000 Comuni in giro per la penisola (Di Michele).

 

Come detto, la riforma prevedeva l’istituzione di tale carica solamente nei Comuni più piccoli, pari a meno di 5000 abitanti. Nondimeno, ciò significò da una parte inserirsi nella vita della maggioranza dei Comuni italiani, dall’altra regolare la vita pubblica di poco più di un terzo dei sudditi del Regno (Di Michele). E così, dopo le vibranti proteste dell’ala più intransigente, il 3 settembre anche i Comuni con più di 5000 abitanti furono interessati dalla riforma. Studiato il terreno e saggiate le reazioni all’interno del partito, il regime finì per trasformare in senso monocratico ogni centro di potere.

 

Carica teoricamente da affidare a un residente e da svolgere gratuitamente, in realtà quella del podestà fu figura molto spesso sia proveniente da fuori che retribuita. Il panorama nazionale, nondimeno, risultava piuttosto variegato, rendendo molto difficile tracciare un profilo-tipo. Scrive ancora Di Michele: “In determinati casi vi fu il recupero puro e semplice del personale amministrativo già attivo durante l’Italia liberale; in altri vi fu l’utilizzo dell’élite aristocratica che nei decenni successivi all’unità aveva lasciato il posto a una nuova classe dirigente borghese; in altri ancora il fascismo diede in parte l’impressione di voler promuovere la nascita di un nuovo ceto dirigente, ricercandone gli esponenti tra i gradi alti ed intermedi delle forze armate o tra elementi della piccola borghesia provvisti di diploma o di laurea”.

 

Ciò che la maggior parte dei sondaggi locali ha comunque evidenziato – conclude – è il ritorno alla guida delle amministrazioni comunali di esponenti dell’aristocrazia e, più in generale, dei ceti proprietari, che in molte realtà del Centro-Nord erano stati scalzati da socialisti e popolari e che al Sud erano invece rimasti tranquillamente al proprio posto”.

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