“L’ora è di combattimento”: dalla nascita alla fusione, ammirazione e conflitti fra i nazionalisti e il fascismo
Il 26 febbraio 1923 i membri dell’Associazione nazionalista italiana confluivano nel Partito fascista. Ma qual era stato il loro rapporto fino a quel momento? Qual era il debito delle camicie nere nei confronti dei nazionalisti e quali le differenze? Ecco l’ultima puntata di “Cos’era il fascismo”
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“La rinnovata coscienza nazionalista deve avere il coraggio di farla finita una buona volta con l’ipocrisia delle serene discussioni e dei pacifici contraddittori di cui si fa bella la ciarlataneria democratica e socialista […] nessun rapporto è possibile fra coloro che rinnegano la patria e coloro che della patria si sono fatti l’ideale supremo della loro vita morale […] ogni discussione presuppone il desiderio o l’interesse dell’accordo e noi non l’accordo ma la guerra desideriamo con loro che rinnegano la Patria” (dalla rivista L’idea nazionale, 24 aprile 1914)
“Le giovani forze d’Italia si sono deste e si preparano all’azione; esse vogliono che la loro voce sia intesa, esse vogliono che la loro giovinezza si trasfonda nello spirito di tutta la Nazione. L’ora è di combattimento. Combattimento di tutti i giorni e di tutti i momenti, combattimento contro l’ignoranza, contro l’apatia, contro l’intrigo, contro la malafede, combattimento contro i nemici d’Italia, ovunque si annidino, comunque si camuffino, combattimento per proteggere, combattimento per vendicare. A Voi giovani, a Voi giovani mi rivolgo, a Voi che avete ardenti fedi, generosi, cuori e gagliarde braccia. Da Voi ancora la Madre aspetta grandi gesta: non è ancora l’ora del riposo, le armi debbono essere tenute pronte per la battaglia. E per l’ora della battaglia sventoleranno accanto a questo Tricolore un’altra bandiera, che mostrerà aquila di Roma dal becco grifagno e dalle unghie adunche. E voi la riceverete in ginocchio e la bacerete e giurerete di saperla difendere con le vostre braccia e con i vostri petti, fino anche alla morte. E dovrà essere segnacolo di devozione e di rispetto per i buoni e dovrà essere segnale di terrore per i tristi” (dalla rivista La Battaglia, 2 dicembre 1920)
TRENTO. Il 26 febbraio 1923 i dirigenti dell’Associazione nazionalista italiana e del fascismo sancivano con la firma di un accordo la confluenza del movimento nazionalista nel Pnf. La principale organizzazione nazionalista, dopo anni di collaborazione e non sempre facile convivenza con le camicie nere, si riuniva così con la forza capace di incarnare aspettative e progetti del nazionalismo italiano.
Salutata positivamente dalla stampa nazionalista e da gran parte degli aderenti, la fusione fra Ani e Pnf non avvenne affatto senza complicazioni. La collaborazione fra nazionalisti e fascisti, cominciata nel turbolento periodo delle agitazioni di fabbriche e campagne, era proceduta infatti su due binari paralleli ma ben diversificati, innestati su valori e concezioni della politica differenti. Ben più longevo, il movimento nazionalista italiano s’era venuto formando a cavallo fra i due secoli, cristallizzandosi nell’Associazione nazionalista italiana solamente nel 1910.
Brodo di coltura delle rivendicazioni nazionaliste, ormai arrembanti in Europa e non solo, fu per l’Italia la cocente sconfitta di Adua, ricevuta dalle truppe italiane contro il negus d’Etiopia nel 1896. Imperialismo, emigrazione, disprezzo della vita borghese e del socialismo gettarono le basi per un movimento dalle forti radici letterarie, che attorno a figure di illustri letterati e battagliere riviste cominciò a prendere forma, intervenendo in maniera sempre più aggressiva ed incisiva nel dibattito pubblico nazionale.
Protagonista assoluto di questa stagione fu lo scrittore Enrico Corradini, ideologo con la teoria della “nazione proletaria” di una fusione fra il nazionalismo ed il sindacalismo rivoluzionario. Principi socialisti venivano così declinati in senso nazionale, alimentando idee poi sviluppate dal fascismo. Non è un caso, dunque, che molti nazionalisti della prima ora diverranno fra i più importanti rappresentanti del regime, da Alfredo Rocco a Luigi Federzoni, da Umberto Guglielmotti a Costanzo Ciano. Senza dimenticare, per importanza del serbatoio retorico e d’immaginario offerto al fascismo, il vate Gabriele D’Annunzio.
I nazionalisti, allo scoppio della Grande Guerra, si ergono a protagonisti della scena pubblica, animando le piazze e spingendo il governo a scavalcare il Parlamento portando anche il Regno d’Italia nel conflitto europeo. Fu in quel momento, pertanto, che la violenza di piazza assunse la centralità fatta propria, nel dopoguerra, dal movimento fascista – una violenza purificatrice, palingenetica, feconda. Alla guerra – per i futuristi “sola igiene del mondo” – veniva riconosciuta nondimeno la missione di rinnovare il Paese, preparandolo al suo nuovo ruolo di dominio.
Nata nel 1910, l’Associazione nazionalista italiana si caratterizzò sin dal principio per il ricorso alla violenza politica. Anzi, secondo lo storico Franco Gaeta furono proprio i nazionalisti “gli inventori del metodo dell’azione diretta di piazza condotta da nuclei paramilitari”, che tanto successo avrebbe ottenuto per mano delle camicie nere. Dalla guerra lanciata all’Impero ottomano per il controllo della Libia al primo conflitto mondiale, i nazionalisti avrebbero applicato tale metodo, scagliando tutta la loro forza contro le masse socialiste prima e le autorità poi, accusate – alla luce delle titubanze giolittiane all’ingresso in guerra – di incarnare il ruolo di “nemici della nazione”.
Sassaiole, risse, aggressioni, azioni di disturbo, sfilate. Da parte sua l’Ani non aveva mancato di agire contro coloro che considerava nemici della nazione, né prima né dopo la guerra. Una volta concluso il conflitto, nonostante le diffidenze nei confronti delle tendenze repubblicane del primo fascismo, furono anche i nazionalisti a guidare azioni spettacolari contro socialisti e “sovversivi”, su tutte a Bologna e a Milano, dove il 15 aprile 1919 veniva assaltata e devastata la sede del principale quotidiani socialista, l’Avanti!.
Fu in quell’occasione che il leader di un piccolo movimento, i Fasci da combattimenti – nati solamente il 23 marzo – riconobbe la vicinanza con Arditi e futuristi, protagonisti dell’assalto. “Noi dei Fasci non abbiamo preparato l’attacco al giornale socialista – scriveva Mussolini all’indomani dei fatti sulle pagine de Il Popolo d’Italia – ma accettiamo tutta la responsabilità morale dell’episodio”.
Mentre il primo squadrismo cominciava a muovere i suoi passi, il nazionalismo italiano aveva già dato vita alle prime formazioni paramilitari. È nel cuore dell’Italia socialista, in particolare a Bologna, che il tenente della Grande Guerra Dino Zanetti organizzò il servizio d’ordine dei “Sempre pronti per la Patria e per il Re”, organizzazione studentesca addestrata alle armi e di forti convinzioni monarchiche. Le “camicie azzurre” – così chiamate per la divisa indossata dai suoi aderenti – avevano lo scopo di mobilitarsi in occasioni degli scioperi, per difendere i commercianti ed evitare azioni antinazionali. Da lì, esse mossero i passi anche sul confine orientale, dove si stava giocando la difficile “partita” di Fiume e della “vittoria mutilata”.
È in questo contesto, con la montante presenza squadrista, che l’Associazione nazionalista esprime tendenze eversive, rivolgendo la propria violenza non più contro i soli socialisti ma anche contro lo Stato liberale. A raccontare molto bene questo passaggio, con tutte le sue conseguenze, è lo storico Donatello Aramini (in La violenza nazionalista (1919-1926): padri nobili o rivali del movimento fascista?, saggio nella rivista Farestoria dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pistoia): “I nazionalisti si univano ancora più saldamente in tutta Italia alle azioni fasciste contro il movimento socialista e contro i governi liberali in una serie di spedizioni che via via incendiavano le città e le campagne del Paese da nord a sud. Da azioni perlopiù negative di difesa e di risposta alle manifestazioni delle sinistre, esse si trasformavano ora in vere e proprie azioni di guerra e di offesa volte all’annientamento del nemico politico”.
Ciò ebbe bisogno, continua Aramini, di un’organizzazione più organica e strutturata, capace di agire in piazza in maniera più efficace. “Il nazionalismo aveva bisogno del suo esercito nazionale di crociati, di una milizia capace di affiancare l’azione politica del partito. Così proprio a Roma, nella città cioè dove sin dall’anteguerra il nazionalismo era sempre apparso più strumento d’ordine che di sovversione, rispetto ai gruppi provinciali meno incline, anche nei toni, ad azioni radicali, il 19 marzo 1921 venne presa la decisione di dotarsi di un’organizzazione paramilitare posta sotto il comando del maggiore Guido Poggioli”. Si trattava, appunto, dei battaglioni “Sempre pronti”, sorti anche in diversi centri del Paese, con lo scopo di “lottare senza tregua e con ogni mezzo al ristabilimento della disciplina morale, dell’ordine sociale e dell’autorità statale” (Aramini).
Divenuta – così come il Partito nazionale fascista – un “partito milizia”, l’Associazione nazionalista proseguì così le camicie nere nell’affiancamento delle azioni squadristiche, non senza polemiche a livello dottrinario e ideologico. Se la prima affermava da parte sua il carattere sostanzialmente nazionalista del fascismo, questo, invece, accusava l’Ani di un eccesivo elitarismo. Aristocratico e non di massa, il movimento nazionalista non affondava infatti le sue radici, a differenza delle camicie nere, nelle trincee della Grande Guerra, proseguendo una tradizione ottocentesca ormai superata.
La concorrenza, più volte, degenerò anche in scontro. Se l’alleanza elettorale ed il ricorso a nazionalisti per il primo governo Mussolini (Luigi Federzoni ministro, Alfredo Rocco ed altri sottosegretari) dimostravano la buona convivenza fra i due, dall’altra non mancarono gli aspri conflitti, soprattutto a livello locale, dove la classe dirigente e il notariato cominciarono gli assestamenti nel nuovo regime; autoritario prima e totalitario poi.