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Il Patto Molotov-Ribbentrop fu un tradimento dell’antifascismo? Dalla Spagna a Stalingrado, perché Stalin si accordò con Hitler

La firma del patto di non aggressione con la Germania nazista provocò nel fronte antifascista europeo una grandissima delusione. L’Urss, assurta con la guerra civile spagnola a principale forza contro il dominio nazifascista, tradiva i suoi principi, accordandosi con il nemico mortale. Ma perché ciò avvenne? Quali furono le responsabilità delle potenze democratiche e quali le conseguenze con lo scoppio della guerra?

Di Davide Leveghi - 23 agosto 2021 - 13:54

TRENTO. Il 23 agosto 1939 i ministri degli Esteri tedesco Ribbentrop e sovietico Molotov firmavano un patto di non aggressione, con cui il Terzo Reich e l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche si promettevano reciprocamente rapporti pacifici e leali. Come noto, tra le clausole segrete dell’accordo v’erano la spartizione della Polonia (QUI un approfondimento), lo scambio di popolazione tra tedeschi e sovietici ed il placet nazista all’invasione da parte dell’Armata rossa dei Paesi baltici e della Bessarabia, territorio corrispondente per lo più all’attuale Moldavia.

 

Nel fronte antifascista, tale decisione non poteva che aprire una dolorosissima crisi. I partiti comunisti, legati a doppio filo a Mosca, vennero tacciati di tradimento, poiché l’Urss, principale potenza antifascista, era venuta a patti col diavolo, l’acerrimo nemico nazi-fascista, dimostrando inoltre – ma questo si sarebbe visto solo successivamente – la sua natura imperialista (vennero ristabiliti i confini della vecchia Russia zarista, mutati a seguito della guerra civile scaturita dalla Rivoluzione d’ottobre).

 

Ciò che avvenne in quel giorno, quando le penne dei ministri nazista e sovietico firmarono incredibilmente uno stesso foglio, fu però l’esito di processi cominciati ben prima; nonché, opportunistica sospensione, più che rottura, di fili riallacciati poi nel 1941, quando inevitabilmente la Germania nazista avrebbe invaso l’Unione sovietica.

 

L’antifascismo, inteso come ideologia che teneva assieme forze ideologicamente molto distanti (se non nemiche), aveva preso campo in tutto il mondo occidentale a partire dagli anni ’30. Più che il fascismo italiano, ben visto dalle classi più conservatrici di mezza Europa, fu infatti il nazismo a creare dei netti campi contrapposti, in quella che lo storico britannico Eric Hobsbawm definisce “guerra civile ideologica internazionale”. “In questa guerra civile – scrive nel suo capolavoro Il secolo brevela divisione fondamentale non era quella tra il capitalismo in quanto tale e la rivoluzione sociale comunista, ma era quella che separava due diverse famiglie ideologiche: da un lato i discendenti dell’illuminismo settecentesco e delle grandi rivoluzioni, compresa, ovviamente, la Rivoluzione russa; dall’altro, i suoi oppositori”. In pratica, schematizza lo storico, uno scontro mortale fra “progresso” e “reazione”.

 

Principale teatro in cui si mostrarono queste tendenze, oltre che le divisioni nel fronte antifascista, fu la guerra civile spagnola, vero e proprio preludio – per intensità della violenza (QUI un approfondimento) – della Seconda guerra mondiale. Proclamata la repubblica (1931), le forze borghesi e moderate non furono in grado di soddisfare le richieste delle classi più povere, portando di fatto il Paese all’orlo della rivoluzione. Di fronte a questa prospettiva, l’esercito, la Chiesa cattolica, i monarchici e i conservatori organizzarono l’insurrezione, potendo contare sull’appoggio di potenze, come la Germania nazista e l’Italia fascista, bramose di una vetrina internazionale in cui mostrare la propria potenza.

 

Nel campo antifascista, invece, tale unione d’intenti latitò. La Francia, alla cui guida v’era tra l’altro un governo di coalizione tra le principali forze di sinistra (i socialisti, i comunisti e i radicali, uniti nel Fronte popolare), dimostrò un freddo sostegno alla causa repubblicana, mentre l’Urss fu l’unica potenza ad inviare uomini e mezzi agli antifascisti spagnoli. Non è un caso, dunque, che al di là delle divisioni fra le frange più radicali della sinistra – l’Unione sovietica organizzò le Brigate internazionali, monopolizzando il controllo del fronte repubblicano e imponendo ai fautori della rivoluzione strategie più graduali – proprio questa si sia trasformata in quegli anni nella spina dorsale dell’antifascismo globale.

 

Isolata dai Paese democratici, su tutti da Francia e Inghilterra – gli Stati Uniti, fino all’attacco giapponese a Pearl Harbor del dicembre ’41, mantennero una rigorosa posizione di neutralità – spaventati dalla rivoluzione, l’Unione sovietica fu quindi spinta a venire a patti con la Germania nazista. A poco meno di cinque mesi dalla sconfitta dei repubblicani nella guerra civile spagnola, l’1 aprile del 1939, la Russia stalinista decideva così di firmare un patto di non aggressione che la preveniva da un imminente (quanto inevitabile) attacco tedesco, togliendola così dalla scomoda posizione di unico grande oppositore del nazifascismo.

 

Lo choc fra gli antifascisti europei fu nondimeno tremendo, anche se, fino a quel momento, a venire a patti con i nazisti erano proprio state le due principali democrazie europee. La realpolitik messa in campo da Francia e Gran Bretagna, infatti, aveva progressivamente aperto il terreno alla Germania nazista, le cui ambizioni territoriali erano chiaramente dettate dalla sua ideologia. Con la conferenza di Monaco (settembre 1938), che apriva le porte della Cecoslovacchia alle truppe del Reich, Parigi e Londra concedevano vantaggi territoriali in cambio di una pace agognata ma impossibile. Entrambe, infatti, temevano più di ogni altra cosa un’altra terribile guerra, dopo che la Prima ne aveva fiaccato sommamente le forze – i primi ministri Daladier e Chamberlain, non a caso, vennero accolti al loro ritorno nei rispettivi Paesi dal tripudio delle folle.

 

Incapaci di leggere l’inevitabilità della guerra, dovuta all’insaziabile brama di territori delle forze dell’Asse (Germania su tutti), Francia e Inghilterra si sarebbero dovute ricredere quando, nel 1941, l’aggressione tedesca all’Unione sovietica finì per ricompattare lo schieramento antifascista. Il compromesso con i tedeschi – la cosiddetta politica dell’appeasement si dimostrò impossibile, poiché – scrive sempre Hobsbawm – “gli obiettivi politici del nazionalsocialismo erano irrazionali e illimitati”.

 

Congelato per due anni, lo schieramento antifascista si sarebbe ricostituito durante la guerra, incarnandosi nelle alleanze dei fronti nazionali, che riunirono assieme un fronte trasversale dai conservatori patrioti ai rivoluzionari sociali. A guidarli, soprattutto nei movimenti impegnati nella lotta di resistenza, furono proprio i partiti comunisti, più disciplinati ed abituati a muoversi in clandestinità. Il trauma del patto di non aggressione russo-tedesco veniva così superato dal sangue versato nella liberazione dell’Europa dal nazifascismo, per cui la Russia di Stalin pagò un tributo di oltre venti milioni di vite.

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