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Ragionare sul “perché siamo ancora fascisti” in un “Paese affamato di storia e memoria”. Dopo oltre 60mila copie vendute, lo storico Francesco Filippi rilancia

A oltre un anno dall'uscita di "Mussolini ha fatto anche cose buone", divenuto un bestseller con oltre 60mila copie vendute, Francesco Filippi ha deciso di pubblicare un secondo volume, una sorta di prosecuzione del lavoro cominciato con il primo libro e nato dalle domande sollevate dal pubblico nei tanti incontri in giro per l'Italia. "Il passato si ripropone in maniera diretta"

Di Davide Leveghi - 01 giugno 2020 - 12:11

TRENTO. “Ciò che è accaduto nella storia – o ciò che pensiamo sia accaduto nella storia – influenza il nostro modo di pensare. Influenza i nostri pregiudizi, i nostri riflessi, la concezione che abbiamo noi stessi, il modo in cui la gente ci concepisce, il modo in cui trattiamo noi stessi, il modo in cui ci trattano gli altri”. Perché, allora, noi italiani “continuiamo a essere fascisti?”.

 

A leggere questa citazione dello studioso guyanese Ivan Van Sertima, comprendiamo il perché Francesco Filippi, dopo il successo editoriale di Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (60mila copie vendute), abbia deciso di approfondire un tema tanto radicato nel subconscio nazionale. È passato poco più di un anno dall'uscita del suo primo fortunato libro (21 marzo 2019) e sulla complicata relazione fra gli italiani e il proprio recente passato primo novecentesco la cronaca non ha certo risparmiato momenti in cui misurare la galassia di rimossi, pregiudizi e stereotipi che impregna la coscienza popolare.

 

Come alla morte di Giampaolo Pansa, celebre firma del giornalismo italiano e autore nella seconda parte della sua vita di saggi capaci di riesumare di fronte al grande pubblico nazionale la memoria dei vinti della Seconda guerra mondiale, o come quando qualche amministratore locale ha proposto, in un'operazione di improprio bilanciamento delle memorie, di offrire a Liliana Segre un'onorificenza solo a patto di concedere al tempo stesso il nome di una via al segretario dell'Msi e redattore de La difesa della razza Giorgio Almirante.

 

E' molto difficile tenere il presente disgiunto dal passato – spiega lo storico levicense – e io in quanto storico, quando mi chiedono di dare opinioni sul presente, rispondo sempre che mi occupo di persone morte. Il passato si sedimenta e c'è bisogno di tempo per poterlo analizzare, ma sono molte le persone che comprendono l'importanza di conoscere ciò che è successo per vivere il presente. C'è la necessità di recuperare pezzi di memoria e pertanto non è tanto il presente che non si vuole staccare dal passato, quanto quest'ultimo che si ripropone in maniera diretta nel presente”.

 

Confrontarsi con il passato, dunque, non è che un passo decisivo per poter guardare al futuro. “Il Paese ha fame di storia e di memoria – continua – a patto che siano scritte bene, in maniera completa, problematica. Questo secondo libro nasce come risultato degli incontri pubblici svolti per la presentazione del primo, nel tentativo di inquadrare i temi e dare risposta a degli interrogativi sul perché siamo a questo punto, sul perché 'siamo ancora fascisti'”.

 

“E' la cristallizzazione di una domanda che partiva dal pubblico, dunque, una prosecuzione naturale di un libro che era partito come un esperimento interno all'associazione (Deina, associazione che organizza tra le altre cose il progetto Promemoria Auschwitz, ndA) e che poi ha trovato spazio al di fuori. Non c'era premeditazione, ma solo il tentativo di dare una risposta a delle domande che emergevano dagli spettatori”.

 

Se il focus del primo libro, quindi, si concentra sugli stereotipi duri a morire che gli italiani hanno del regime fascista (dalla politica sociale alle famose 'bonifiche'), in questo secondo caso l'analisi si sposta sulle pesanti eredità materiali e spirituali con cui la Repubblica nata dalla Resistenza si trova a confrontarsi. I limiti della defascistizzazione, l'evolversi del contesto internazionale, la difficoltà nell'impiantare una cultura democratica sradicando il retaggio di mentalità autoritarie e reazionarie: sono questi alcuni degli aspetti che sostengono il racconto di Filippi.

 

“I punti focali sono due ordini di problemi – illustra lo storico – in primo luogo le eredità materiali. Il fascismo permea le istituzioni e la cultura, una volta sconfitto, dunque, si impone la necessità della defascistizzazione, processo richiesto anche dagli Alleati. Esso rimarrà sostanzialmente lettera morta, con difficoltà nel ricucire e ricostruire un'Italia post-fascista. La seconda parte, invece, affronta la narrativa pubblica e l'incapacità di mettere in campo una diffusa cultura antifascista in grado di sopravvivere alla morte della Prima Repubblica e di creare valori universali che non fossero solo legati alle forze vincitrici della Seconda guerra mondiale”.

 

Per fare questo lavoro, Filippi a che fonti si è rivolto? “Così sono partito dalle tante cose scritte sull'epurazione – prosegue – appoggiandomi poi alla legislazione che sin dall'agosto '43 comincia a produrre regolamentazioni che rendono il fascismo un reato. Il tentativo di irregimentare fascismo e antifascismo proseguirà poi con la Repubblica, la Costituzione e le leggi che da qui nascono, in una continua interpretazione negli anni che porterà anche a famigerate sentenze di Cassazione secondo cui il saluto romano non è un crimine quando si compie come atto commemorativo”.

 

“Al centro del lavoro, dunque, ci sono il significato stesso della parola fascista e le sue implicazioni pubbliche. Un'analisi del cinema, arte cruciale nell'Italia post-'45, in cui sopravvivono forti sacche di analfabetismo, e che vede tra i registi più geniali dell'epoca, dimostra quanto e come la cultura passasse da lì. Nel neorealismo si percepiscono tutti i cliché predeterminati su fascismo e antifascismo, da 'Roma città aperta' in poi emerge la visione degli italiani brava gente, della divisione tra fascisti e nazisti, con questi ultimi che esauriscono il ruolo dei cattivi. L'Italia si racconta con grandi valori ideali che la salvano dal suo passato”.

 

La guerra, in particolare, viene raccontata tra lacune, non detti e luoghi comuni che scagionano i soldati italiani, riconoscendo loro una natura fondamentalmente buona, spesso in contrasto con l'alleato nazista, disumano e prepotente. Anche nella grande letteratura la guerra di Russia viene raccontata nella sola prospettiva della ritirata – spiega Filippi – dal '43 in poi. Ma perché non si parla dell'anno e mezzo precedente, quando il Regio esercito è in Russia in qualità di occupante? La visione mitologica dell'italiano buono torna poi anche tra le letture più diffuse su una delle guerre più vili intraprese dal fascismo, l'invasione della Grecia. Nel film premio Oscar Mediterraneo non si toccano ad esempio alcuni punti fondamentali: perché gli italiani si trovano in Grecia? Perché non ci sono uomini greci sull'isola? Ciò che emerge è il solo grande racconto in cui l'italiano è buono, più buono del suo alleato, difende la popolazione civile e si innamora. La classica conclusione a tarallucci e vino”.

 

Non è un caso che i film sui crimini compiuti dagli italiani nei vari fronti della guerra e nelle colonie siano spesso finiti sotto la scure della censura. “Nel 1981 il film Il leone del deserto sul capo dei ribelli libici Omar al-Mukhtar viene censurato utilizzando il riadattamento di una legge del regime. Si considera lesivo dell'onore delle forze armate – conclude Filippi – a Trento la pellicola viene fermata dalla Digos impedendo la prima visione in Italia e solo alla fine dei 2000 una piattaforma privata come Sky riesce a proiettarlo, dopo oltre vent'anni. Tutto questo perché affronta un momento sconosciuto e vergognoso della storia italiana”.

 

Per la presentazione del volume, uscito il 21 maggio, bisognerà aspettare la fine di giugno (20 giugno a Levico Terme).

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