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La "farsa" del 28 ottobre 1922 e la "resistibile" ascesa del fascismo. La Marcia su Roma compie 98 anni

Tra connivenze, debolezze e interessi, il 28 ottobre 1922 il fascismo fondava il suo mito della presa del potere. Era frutto di una decisione già scritta, l'esito di una mutazione opportunistica compiuta dal partito, trasformatosi da movimento rigeneratore e anti-politico in forza stessa della reazione

Di Davide Leveghi - 28 ottobre 2020 - 17:41

TRENTO. Nato per sedare i rivoltosi che si erano opposti alla guerra e minacciavano la rivoluzione e per svecchiare il “marciume” che governava il Paese, il movimento dei Fasci da Combattimento si sarebbe trasformato ben presto da anti-partito in un partito vero e proprio. Al 28 ottobre 1922 mancavano una manciata di giorni perché questa mutazione giungesse al primo anniversario.

 

Nelle masse di camice nere concentratesi attorno a Roma, dunque, c’erano tutte le anime di quello che sarebbe stato il Fascismo. Sorto ai margini di una guerra vinta – ma “mutilata” dalle promesse disattese delle potenze alleate – il movimento aveva cominciato a strutturarsi, perdendo quegli elementi di rigenerazione, di “vero socialismo” (come si affannava a ripetere agli albori del movimento il suo condottiero Benito Mussolini, proveniente proprio dall'ambiente del socialismo massimalista), a favore di una retorica dell’ordine e della conservazione che avrebbe saldato le sue battaglie con le aspirazioni degli apparati dello Stato, dei grandi latifondisti e degli industriali.

 

Da questo punto di vista, dunque, il 28 ottobre non fu che una tappa di un percorso già cominciato. Fu la forma di cui si vestì la vera sostanza del fascismo, la prova di forza decisiva con cui la corte avrebbe spalancato le porte ad un partito già vincente grazie alla violenza indirizzata contro i "giusti" bersagli. Per interessi, per paura, per brutalità. La diga istituzionale, quel giorno, venne fatta crollare sotto la pressione della marea nera, ma non fu che una farsa il cui copione era già stato scritto.

 

Il 24 ottobre, a Napoli, una prima adunata minaccia il governo del liberale Luigi Facta. Da tre anni il Paese assisteva alle scorribande fasciste, tra spedizioni contro le Leghe contadine nelle campagne e assalti alle Camere del lavoro nelle città e nei maggiori centri agricoli. Il 21 novembre 1920 Palazzo d’Accursio, sede del municipio di Bologna, diviene teatro di scontri tra fascisti, Guardie rosse e forze dell’ordine in cui rimangono sul campo 11 persone. L’occasione è l’insediamento della nuova giunta comunale socialista uscita dalle urne, il cui esito viene però cancellato dalle violenze di piazza. La "rossa Bologna" viene affidata a un commissario prefettizio.

 

La violenza ha già travolto anche le nuove acquisizioni territoriali della Grande Guerra. È il 13 luglio 1920 quando le fiamme appiccate dagli squadristi triestini divorano il centro culturale sloveno del Narodni Dom. È un battesimo di fuoco con cui si enuncia un principio inderogabile del fascismo: non esiste alcuno spazio per le minoranze, siano esse etniche o politiche. Questo concetto vedrà una chiara manifestazione anche nella Venezia Tridentina, proprio al principio di quel funesto ottobre del 1922 in cui si consumarono le scene finali della debole e remissiva Italia liberale.

 

Debole e importato a Bolzano, saldato all’irredentismo nazionalista a Trento, il fascismo che abbatté il commissariato civile di Luigi Credaro, forma politica con cui si sarebbe dovuta accompagnare l’entrata nel Regno di questi territori strappati all’Impero, proveniva in gran parte dalle centrali dei grandi centri lombardi e veneti, dove d’altronde si trovavano le stesse condizioni favorevoli all’ascesa del movimento (a differenza che nel povero Trentino o nel tirolesissimo Alto Adige). Alzato il livello dello scontro, con una prova di forza e la connivenza delle forze dell’ordine avrebbe messo fine a ogni velleità autonomistica.

 

Mutuando un’espressione brechtiana (riferita ad un emule altrettanto nefasto di Mussolini), l’ascesa del fascismo fu “resistibile” e frutto di un concorso di colpe. Abile opportunista, il suo capo, pronto a riparare all’estero in caso di fallimento della Marcia, seppe aggiustare la mira in corsa, smussando i caratteri più spigolosi della violenza squadrista e virando verso l’ordine e la disciplina. La “rivoluzione conservatrice” era già divenuto il cavallo di battaglia di un movimento che in principio aveva saputo capitalizzare l’ansia di rinnovamento di un Paese in mano ad una classe dirigente stantia, per poi mutarsi in forza stessa della reazione.

 

Non fu un’improvvisa calata dei barbari in una società decrepita e sfiancata, dunque, ma la spallata ad un governo debole e incapace di reagire. Mentre l’afflusso di camice nere su Roma aumentava (frenate dalle forze fedeli allo Stato e dagli Arditi del Popolo), il 28 ottobre 1922 il fascismo aveva dalla sua il sostegno della corte. E così, di fronte al primo ministro Facta che chiedeva insistentemente al re di firmare lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele aveva già deciso da che parte stare – così come il fascismo, da movimento repubblicano, si era progressivamente convertito in monarchico. Dalla farsa, la storia italiana sarebbe presto passata ad una lunga e terribile tragedia, durata vent’anni.

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