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“Piango al solo pensiero”, dopo la tragedia della Marmolada Carlo Budel vorrebbe tornare in vetta: “Il trauma era così forte che non me la sentivo, conoscevo le vittime”

Carlo Budel, gestore di Capanna Punta Penia, il 3 luglio osservava dal suo rifugio, inerme, il distacco d'un seracco che ha causato la morte di 11 alpinisti. É un ricordo colmo di dolore, quello del rifugista, ma nel quale si fa spazio un inno "alla vita che continua"

Di Sara De Pascale - 21 agosto 2022 - 06:01

PASSO FEDAIA. La morte e il dolore hanno due facce: da un lato stanno coloro i quali se ne vanno, dall'altro invece chi resta. Questi ultimi, sono quelli investiti del  compito di riuscire a fare fronte al duro peso dell'assenza, insieme a quello della frustrazione che la perdita brutalmente trascina con sé. Quando il 3 luglio scorso una valanga si staccava dalla Marmolada, il seracco trasportava insieme a ghiaccio e roccia anche 11 vite, persone che, Carlo Budel, gestore della Capanna Punta Penia, aveva conosciuto poc'anzi.

 

"É stata davvero dura - confessa Budel a Il Dolomiti - 8 di quelle 11 persone le conoscevo: 3 di loro, in particolare, le frequentavo assiduamente. Un'indicibile sofferenza", aggiunge. 

 

Sono cinque anni che Carlo gestisce la Capanna Punta Penia, un rifugio posto in vetta alla Marmolada dal quale il 3 luglio il rifugista assisteva alla spaventosa frana, uscendo dalla struttura dopo aver sentito "un fortissimo boato". Una scena "scioccante, soprattutto perché la maggior parte di quegli escursionisti li conoscevo. Il vero dramma non è stato il distacco del seracco in sé ma il fatto che sia avvenuto in un momento (intorno alle 14) in cui era inevitabile che qualcuno sarebbe rimasto coinvolto", dichiara.

 

Dopo diversi compleanni festeggiati in vetta, in quella che Budel chiama ormai da tempo "casa", il gestore del rifugio si è ritrovato a luglio di quest'anno a allontanarsi da Capanna Punta Penia per la prima volta da quando la gestisce, con nel cuore un enorme dolore non soltanto per quelle 11 vite spezzate ma anche per la rinuncia a un lavoro che per lui è anzitutto"vita".

 

"Quando è successo tutto, sentivo di non volerci tornare più al rifugio, tanto ero rimasto traumatizzato - spiega - da allora mi sono spostato al Castiglioni dove sto dando una mano. Questo tempo mi ha permesso di riflettere molto, arrivando infine a capire che, se è vero che la vita finisce (a volte in maniera incomprensibile o inaccettabile) è anche vero che la vita continua".

 

Un pensiero che per Carlo è divenuto motore per superare il trauma vissuto ma anche per trovare la voglia, la carica e l'entusiasmo per tornare alla sua Capanna, non appena gli verrà dato il via libera: "Dopo qualche giorno, casa mia aveva già iniziato a mancarmi - ricorda Budel - piango dalla commozione al solo pensiero di poter presto tornare a Punta Penia, sulla mia montagna".

Una voglia di ritorno a un luogo che per il rifugista è "il più bello al mondo", sentimento talmente forte e autentico da sovrastare l'inevitabile tristezza per quanto è accaduto: "Sono convinto che sia giunta l'ora di riaprire la Marmolada - sottolinea - Mercalli poco tempo fa, non a caso, approdava a Canazei raccontando che quello della Regina delle Dolomiti è un ghiacciaio che fino a prima della tragedia non presentava particolari criticità e aggiungendo che non si può vietare alle persone di andare in montagna: di questo ne sono perfettamente convinto anche io - commenta - ciò che è importante è far sapere agli alpinisti che i rischi ci sono. Ognuno, poi, decida da sé".

 

A concordare con Mercalli e Budel, anche Aurelio Soraruf, gestore del rifugio Castiglioni: "Sulle montagne ci sto da una vita - esordisce - io, così come molti dei miei parenti. Tutti noi siamo ben consapevoli dei rischi che queste realtà possono comportare: molti escursionisti, invece, non si pongono limiti e in queste zone ci approdano con fin troppa leggerezza", racconta, aggiungendo che, sebbene la tragedia della Marmolada rimanga una "disgrazia, non possiamo chiudere tutto: è necessario tornare alla vita, ridare la possibilità a chi vuole di andare in montagna, rendendo i turisti consapevoli delle possibili insidie della natura ma lasciando che siano poi loro a decidere cosa fare o dove andare".

 

Delle persone scomparse, quindi, secondo Carlo e Aurelio non resta soltanto un (doloroso) ricordo e un incolmabile vuoto ma anche la consapevolezza "che si debba andare avanti, perché la vita per chi resta (fortunatamente) continua e è giusto quindi fare in modo di poterla vivere appieno".

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