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Arcese, ''utilizzo improprio della cassa integrazione'', condannata al risarcimento. L'azienda pensa di spostarsi all'estero: "Impossibile fare impresa in Italia"

La sentenza della Corte d'Appello di Trento ha costretto l'azienda a risarcire un folto gruppo di autostrasportatori tenuti in cassa integrazione tra il 2011 e il 2015: le parole dei lavoratori e di Matteo Arcese, Executive President del Gruppo Arcese

Di Marcello Oberosler - 14 luglio 2024 - 06:01

TRENTO. La Corte d'Appello di Trento ha recentemente condannato Arcese Trasporti Spa, grossa azienda di trasporto merci e logistica con sede ad Arco, a risarcire ad un gruppo di circa 50 lavoratori autisti di autoarticolati il danno per averli tenuti negli anni dal 2011 al 2015 per lunghi periodi in cassa integrazione.

 

Dall'analisi dei dati dei bilanci aziendali, esposti nei ricorsi dei lavoratori, i giudici hanno dedotto che Arcese avrebbe scaricato illegittimamente il costo dei suoi dipendenti a carico dell'intervento nazionale pubblico e, citando la sentenza, “ha quindi fruito del soccorso della Cassa Integrazione Guadagni, non per far fronte ai dissesti provocati dalla sussistenza di una causa integrabile (la cui esistenza è smentita anche dall'andamento del fatturato accertato dal CTU) ma per perseguire una diversa finalità, quella di realizzare una ristrutturazione economicamente più conveniente, piegando così lo strumento pubblico di sostegno delle imprese e dell'occupazione a uno scopo diverso e contra legem.

 

LA NOTA DEI LAVORATORI.

“Il nostro è uno dei tanti casi di inefficienza dei controlli pubblici sull'uso del denaro pubblico, di inesistenza di difesa sindacale oltre che, ovviamente, di malafede dell'azienda”.

 

Si chiude così la nota inoltrata alla stampa dai lavoratori risarciti, desiderosi di far arrivare questa vicenda alla conoscenza dell’opinione pubblica. “L'azienda in quegli anni – raccontano - chiedeva ed otteneva l'intervento della Cassa Integrazione riferendo di essere in crisi aziendale. Nessuno, né i Sindacati, né l'Inps, né il Ministero del Lavoro, né la Provincia di Trento, durante le varie procedure attivate dall'azienda, ha mai pensato di controllare i bilanci aziendali per verificare se l'azienda fosse effettivamente in crisi. La Corte d'Appello di Trento ha finalmente accertato che la Cassa integrazione era stata concessa illegittimamente perché mancavano del tutto i presupposti per autorizzarla dato che l'azienda in quegli anni non solo non era in crisi ma era in forte crescita economica ed aveva un consistente incremento di lavoro. Questo lavoro però era più conveniente farlo eseguire a lavoratori di paesi stranieri (Slovacchia, Polonia e Romania) che venivano assunti da fittizie aziende straniere di proprietà della stessa Arcese Trasporti Spa e lavorano (eseguendo viaggi con partenza e arrivo in Italia) alle condizioni economiche e lavorative previste nei loro Paesi, in quanto lì formalmente assunti dalle suddette aziende fittizie. Il tutto mentre noi venivamo lasciati a casa in Cassa Integrazione a spese della collettività”.

 

“Si è trattato quindi, da un lato, di un vero e proprio abuso dell'istituto della Cassa Integrazione da parte di un'azienda e, dall'altro, di una totale mancanza di difesa dei nostri diritti da parte dei Sindacati coinvolti e una totale mancanza di controllo sull'uso del denaro pubblico da parte degli organi amministrativi. Il danno alle casse pubbliche - proseguono i lavoratori - è stato ingente e si aggira, come minimo, sui 15 milioni di euro (tra denaro elargito per la Cig e per le indennità di mobilità) visto l'elevato numero dei lavoratori coinvolti negli interventi pubblici di sostegno. Il caso è rilevante perché questa azienda ha aggirato tutti i controlli senza esser dovuta ricorrere a particolari sotterfugi ma semplicemente dichiarando il falso nelle sue comunicazioni pur a fronte di dati di bilancio pubblici in aperto contrasto con le dichiarazioni rese. Vorremmo che venisse approfondita la questione delle procedure collettive che prevedono il coinvolgimento di Sindacati non rappresentativi a livello aziendale e quindi del tutto distaccati dai lavoratori e la questione dell'utilizzo così consistente di denaro pubblico senza sostanzialmente alcun controllo da parte degli organi amministrativi che tale controllo dovrebbero esercitare. Vorremmo anche che gli organi pubblici si attivassero per recuperare il denaro illegittimamente elargito ad Arcese Trasporti”.

 

LA RISPOSTA DI ARCESE.

Filtra una sconfortata rassegnazione nelle parole di Matteo Arcese, Executive President del Gruppo Arcese, mentre commenta a Il Dolomiti la sentenza della Corte d’Appello di Trento. “Ne prendiamo atto. Si tratta dell’ingiusto ma atteso epilogo di una lunga vicenda”, esordisce amareggiato. “Rimango convinto della nostra correttezza, della nostra buona fede: abbiamo condotto l’azienda nel pieno rispetto delle norme e delle regole. Sono dispiaciuto, ma ormai fare impresa in Italia è letteralmente impossibile, questa sentenza è l’ennesimo episodio che lo conferma. Non sono sorpreso”.

 

“In Italia – prosegue Arcese - non ci si rende conto che le imprese andrebbero tutelate, e non abbattute. In particolare nel settore dei trasporti e della logistica stiamo assistendo ad una serie di attacchi da tutte le direzioni: un vano tentativo di moralizzare il settore portato avanti da soggetti che non hanno la minima conoscenza delle regole del mercato e che ormai vede come bersaglio anche le grandi imprese. Il discorso sarebbe lungo e complesso, ma riassumiamolo così: questo è un Paese in cui ci sono tante regole non sempre chiare con cui bisogna convivere e che bisogna continuamente interpretare. Più si cerca, in buona fede, di impegnarsi per rispettarle e interpretarle nella maniera corretta, e più si viene attaccati e penalizzati. Nessuno in questo Paese considera la logistica e i trasporti un settore strategico, nessuno si fa promotore delle nostra istanze o prova a risolvere i nostri problemi. Insomma, tirando le somme verrebbe da dire che per noi avrebbe più senso, come azienda, investire in altri settori. O, perché no, spostarci all’estero: vorrei vedere chi altro, al nostro posto, avrebbe la forza di continuare a fare impresa in Italia in questo contesto”.

 

L’azienda di Arco già qualche anno fa aveva ventilato la possibilità di lasciare il Trentino, ma ora la questione ha tracimato ben oltre alle diversità tra una regione e l’altra: “Ci consideriamo – conclude Arcese - un asset strategico del nostro territorio. Come possiamo non esserlo? Paghiamo le tasse qui, diamo lavoro a tante persone: solo negli ultimi 5 anni abbiamo aumentato il nostro organico di quasi 700 persone. E invece di valorizzarci, un’azienda così si cerca di demolire. E a forza di essere ‘demoliti’ si perdono energie, entusiasmo e speranze. Un problema trentino? No, non più. Qui siamo una delle più grandi aziende del territorio, quindi siamo molto più sotto le luci dei riflettori, mentre in altre regioni saremmo una realtà come tante; ma ormai la questione è assolutamente nazionale. Non ci si rende conto che dobbiamo confrontarci con un mercato internazionale in cui la competitività è fortissima: istituzioni, magistratura, giudici del lavoro, persino l’opinione pubblica a volte sembrano fare di tutto per metterci i bastoni tra le ruote. Per l’ennesima volta, proveremo a resistere. E a reagire di conseguenza”.

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