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Italia prima in Europa per giovani che non studiano né lavorano: “In Trentino divario di genere maggiore alla media nazionale”

In Italia il 27,7% dei giovani tra i 18 e i 29 anni non lavorano e non studiano, una percentuale record a livello europeo e tra le più alte fra i Paesi Ocse. In Trentino va meglio: la percentuale di Neet scende infatti al 17%, ma ad aumentare è la disparità fra giovani uomini e donne. La professoressa di Sociologia dell'Educazione e delle problematiche al Genere dell’Università di Trento Francesca Sartori: “E’ un dato che mi ha stupito molto, deve essere approfondito” 

Di Filippo Schwachtje - 19 gennaio 2022 - 05:01

TRENTO. Quello dei Neet, dei giovani cioè che non lavorano e non studiano (l’acronimo deriva dall’inglese ‘Neither in employment or in education or training’), è un problema complesso e purtroppo strutturale in Italia, prima in Europa (e ai primi posti fra i Paesi Ocse) per percentuale di ragazzi senza un lavoro che non stanno proseguendo con gli studi: in Provincia di Trento la situazione è migliore rispetto al resto del Paese, ma in Trentino “il divario fra ragazzi e ragazze è più ampio che a livello nazionale, è un dato eloquente e molto serio che deve essere approfondito”. A parlare è la professoressa di Sociologia dell'Educazione e delle problematiche al Genere all’Università di Trento Francesca Sartori, contattata da il Dolomiti per indagare la questione.

 

“Parlando di dati (Istat) – spiega l’esperta, specializzata nelle tematiche relative alle disuguaglianze di genere e al sistema scolastico – è interessante innanzitutto confrontare le percentuali relative al 2019 e al 2020 per capire l’impatto avuto dalla pandemia. In Italia prima del Covid i Neet (considerando la fascia d’età che va dai 18 ai 29 anni) erano il 26%, nel 2020 il dato è arrivato al 27,7%, una differenza tutto sommato piuttosto relativa”. In poche parole, dice Sartori, il fenomeno in Italia è sostanzialmente “strutturale e solo in minima parte congiunturale”. Sono molti i fattori che influenzano l’evoluzione del fenomeno e secondo Sartori è possibile che la pandemia abbia “influenzato più a livello di percezione” che a livello fattuale. “In Trentino – continua Sartori – vediamo una notevole differenza rispetto al resto del Paese: sul territorio provinciale infatti la percentuale di Neet era al 14,9% nel 2019 e al 17,0% nel 2020”.

 

Come detto però, a stupire è il confronto ‘di genere’ fra la situazione per i giovani maschi e le giovani femmine in Provincia di Trento. “A livello italiano – continua infatti la professoressa di UniTn – vediamo che nel 2020 la percentuale di Neet fra i ragazzi dai 18 ai 29 anni è il 25,3% e fra le ragazze il 30,3%. In Trentino invece quelle stesse percentuali sono invece il 12,9% e il 21,5%”. Insomma: se da un lato è vero che in Provincia la situazione è migliore rispetto al resto del Paese (e un ruolo importante in questo contesto “è da attribuire al nostro sistema scolastico” dice Sartori), dall’altra è altrettanto vero che il divario percentuale che separa ragazze e ragazzi Neet in Trentino è significativamente più ampio rispetto alla media nazionale. “Francamente sono rimasta molto stupita – dice l’esperta – è una statistica che dice molto e che deve essere approfondita, un dato del genere non si può ignorare”.

 

A tutti i livelli infatti le donne in Italia (e non solo) “sono più in difficoltà sul fronte lavorativo – continua Sartori – e per quanto riguarda le statistiche relative al fenomeno dei Neet influisce sicuramente anche l’allontanamento dal mondo del lavoro per molto donne che, avvicinandosi alla soglia dei 30 anni, si trovano ad affrontare la maternità. Nei Paesi del Nord Europa per esempio, la partecipazione femminile al mondo del lavoro è ormai simile a quella maschile anche grazie alle politiche sulla maternità messe in campo”. Al di là delle differenze di genere però, sottolinea Sartori, per capire la problematica e le possibili soluzioni da mettere in atto è fondamentale capire “chi siano questi ‘Neet’: non si tratta infatti di un’unica categoria omogenea. A mio parere è possibili distinguere tre sottogruppi, ognuno dei quali necessita di attenzioni e misure diverse”.

 

Il primo è quello dei giovani “che non stanno lavorando ma stanno attivamente cercando un impiego – dice Sartori – possiamo dire che questi soggetti sono potenzialmente tra coloro che possono farcela e che prima o poi con ogni probabilità troveranno un lavoro. Infatti, dal punto di vista dei possibili interventi in questo caso a mio parere bisognerebbe puntare più che altro sul ‘matching’ tra domanda e offerta di lavoro. Attraverso sistemi ed enti in grado di avvicinare chi cerca lavoro e chi lo offre, questa situazione di stallo potrebbe essere superata”. Il secondo gruppo è invece quello di chi “non lavora, non sta cercando un impiego ma sarebbe disponibile a lavorare”. Secondo l’esperta di UniTn in questo caso i giovani agiscono "passivamente” e a giocare un ruolo importante “è la sfiducia, la mancanza di autostima”. “Questi ragazzi e ragazze – dice infatti la professoressa – non hanno una conoscenza minima del mondo del lavoro, che consentirebbe loro di ‘incontrarlo’ nella maniera più corretta. Non sanno per esempio sostenere un colloquio, molti si presentano senza nemmeno sapere per che tipo di lavoro stanno presentando richiesta e il loro atteggiamento spesso non è adeguato”.

 

Da questo punto di vista l’alternanza scuola-lavoro potrebbe offrire una soluzione: “Ci vuole consapevolezza da parte delle scuole, bisogna dare ai ragazzi una formazione diretta e mettere a loro disposizione strumenti per trovare un lavoro nel mondo reale. Una delle caratteristiche del sistema scolastico del nostro Paese è proprio questo: formiamo studenti che hanno una conoscenza approfondita in vari ambiti, ma spesso slegati dal contesto lavorativo, al contrario per esempio del sistema tedesco”. L’ultimo gruppo è quello più problematico, perché è formato dai giovani che “non vogliono lavorare”. Le ragioni di questa scelta possono essere diverse, dice Sartori: “A partire da affinità ideologiche a culture alternative in cui il nostro sistema economico viene rifiutato fino a situazioni culturali all’interno delle quali, per esempio, non è previsto che una donna possa lavorare”. Un ultimo aspetto però, conclude l’esperta, è legato ad un discorso famigliare: “Anche quando i figli sono ormai adulti, oggi succede spesso che i genitori sostengano i ragazzi piuttosto di spingerli verso lavori magari ritenuti ‘inadeguati’ al loro livello di studio. A parte quest'ultimo caso che richiederebbe risposte molto complesse, il concetto di fondo che deve caratterizzare gli interventi per contrastare atteggiamenti di 'fuga' da lavoro dovrebbe essere quello teso a favorire l'inclusione sociale".

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