In una Trento (mai nominata) con cameo di Fugatti, Bisesti e la torta del Viva la ''F...A''. Ecco il libro ''La mia città'', storia di due amici in cerca di consolazioni
Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)
Il triangolo no, non l’avevo considerato. Triangolazioni Tridentine, Tri-tri, l’allitterazione “TR” trionfa. Il Tre – un tre aritmetico e geometrico, senza alcun riferimento a misteri trinitari cattotridentini – è il vero principio ordinatore delle 220 pagine del nuovo romanzo di Valentino Corona, trentino peregrinante che è stato così spesso in trasferta in Europa da confessare: “Conosco poca gente, a Trento”. Ne conosce abbastanza per aver pensato questo libro simil-picaresco, con un titolo che ammicca ai temi di terza elementare, “La mia città”, e un sottotitolo vago (“Una storia quasi d’amore”): dentro, non si cita mai il nome di Trento, città alpina di pianura, ma i trentini autoctoni e acquisiti non faranno fatica a riconoscerla.
Nella sua schiva bellezza e nella sua inevitabile noia. Una Trento percorsa longitudinalmente soprattutto da un paio di amici, Luk e Ste, e costui – aspirante scrittore – è l’io narrante. La regola del Tre vale anche per i nomi, tutti rigorosamente abbreviati e ridotti a 3, max 4 lettere: Stefano in Ste, Gianluca in Luk, perfino Giulia, che è breve di suo, in Giul. Perfino Sam per lo smartphone Samsung. Ossessione monosillabica, interessante.
Corona ci racconta l’habitus mentale dei trentini, che è quello del vorrei-ma-non-posso o del potrei-ma-non-voglio, che è il fare le cose tendenzialmente in compagnia seppur di malavoglia (l’orso che alberga in noi), anche per trovare conforto alla timidezza. Pochi amici ma buoni; costante e a volte stressata ricerca di una donna-quasi-amica che conforti nelle afose notti estive. Un’ombra di malinconia, non esistenziale ma accessoria, quella sempre. Trentini che cercano figure materne o paterne nell’emblematica zia convivente di Ste o nell’anziano professore a cui sottoporre la bozza del romanzo. Maschi trentini che non si liberano dalla sindrome adolescenziale, che emerge nello scombiccherato tentativo letterario di Ste, storia sbarellata su un cambio di sesso e la ricerca di una nuova identità, come sbocco alle irresolutezze irrisolte.
E dunque “La mia città” anche come ironico diario minimo di formazione, minimalismo senza ambizioni di dire cose alte sulla vita, consapevole del provincialismo di Trento, della sua marginalità. L’autore, oltre ad aver compiuto e raccontato più volte il Camino di Santiago, ha viaggiato e vissuto da Berlino a Pola, un’Europa che curiosamente resta molto lontana dall’atmosfera di questo libro, tutta interna a questa piccola città e piuttosto claustrofobica dunque. Qui – dopo averci aperto gli orizzonti con il “Blues siberiano” – Corona si è tolto il dente e il dolore e perfino il delirio, e ha scavato nelle sue radici trentine.
Con Francesco Guccini (che parlava della più gaudente ma egualmente periferica Modena) si potrebbe definirla “piccola città bastardo posto”: con tutto il bene che si vuole ai meticci e ai bastardi ma anche con i limiti imposti dalla tradizione e dalle convenzioni, che ci rendono sospettosi e ariducci. C’è anche un riferimento politico piuttosto esplicito, con la scena della torta, che fu un episodio di classico machismo salvinista e che qui viene ri-narrato con una nuova interpretazione filologica dei due puntini tra la F e la A, della decorazione fallogoliardica “Viva la F..A”, di cui poi gli sventurati si scusarono, seppur poco convinti. L’ipotesi Corona è che non si tratti di due punti da prendere alla lettera, o meglio alla cifra, insomma non 2 lettere ma una serie di lettere mancanti, con la parola meno sessista e più interclassista di “Filodrammatica”. Viva la Filodrammatica, insomma.
I ritratti più riconoscibili sono quelli di due (numero diabolico) attuali governanti, il presidente promoter di Vasco – pomposamente annunciato nel catartico buffet elegante come “il nostro governatore”… ma che siamo, nel Texas? – e il suo assessore alla cultura con “nome un pochino funesto e chignon assai delizioso”. Del reuccio incoronato, il Corona scrive: “Io osservo incuriosito quel signore, che colpevolmente non conoscevo, dato che non me ne sono mai curato. E mi rallegro molto che anche noi abbiamo un governatore. E penso che quell’uomo dev’essere davvero un grande condottiero, probabilmente un discendente dello stesso Gengis Kahn, data la fierezza del suo portamento e i lineamenti del suo volto che richiamano quelli del grande mongolo terrore dell’intera Europa cristiana… Il governatore parla masticato, muovendo le dita delle sue manine corte davanti al viso, come fanno gli studenti dell’Istituto Tecnico quando cercano in aria le parole che non trovano”.
Sono due schizzi non encomiastici, quelli di Mau e Mirk, il che ci consente di elogiare la larghezza di vedute della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, che ha comunque finanziato il libro di Curcu & Genovese/Athesia nella collana “Storie dal Trentino”, come risulta dal ringraziamento dell’editore. E che Corona e il suo Ste, scrittore “proletario”, abbiano delle pulsioni anti-sistema è confermato dal bombardamento finale dei palazzi delle istituzioni dall’alto della collina, in una specie di Sarajevo Dream che però si rivelerà solo un gioco bellico virtuale sebbene i cannoni 106 schierati sulle alture fossero terribilmente efficaci con i loro botti micidiali. Luk, Ste, Giul e Mari li hanno beccati tutti, gli edifici che contano, dalla Provincia alla Curia arcivescovile. Ma poi scoprono che la città è rimasta intatta. Meno male. Peccato.
Ma torniamo infine alla questione dei numeri, che forse è l’aspetto più intrigante della storia di Corona. La fatica nell’emanciparsi vissuta dal maschio trentino sarebbe da ricondurre a un problema con il numero 2, che lo mette a disagio nei rapporti di coppia o nella dialettica serrata tu-io. Il due non è il numero dell’amore (come in Erri De Luca) ed è invece per Corona piuttosto diabolico perché ci mette uno contro l’altro. Spiega Luk: “Per fortuna alla fine è arrivato il tre che ha rimesso d’accordo tutti, l’uno e il due. Perché il tre è perfetto. Ma perfetto è anche il quattro. Che sarebbe poi il tre più l’uno. È sul quattro che si costruisce tutto”. Quattro evangelisti, quattro stagioni, quattro trigoni dello zodiaco, quattro lati della casa. Quattro più tre fanno poi la perfezione assoluta del 7, mentre l’8 è “insulso come un broccolo bollito”.
La preferenza per il tre e per il quattro si manifesta nel progettato triangolo tra i due protagonisti e la bionda Giul, “più carina di Scarlett Johansson” (Scar?) nella coabitazione tra Ste, la zia e il gatto molto coccolato nella residenza dell’aspirante scrittore; nell’escursione alpina a caccia di funghetti allucinogeni che è l’inevitabile trasgressione (non chimica, però, naturale!) tossicologica dei due amici più un terzo, esperto di miceti magici. Il Fran. 4 lettere. Il 3, dunque, come cifra per sfuggire alla solitudine dell’1, il 4 come fuga dall’angoscia del 2, frustrante e limitante. Si rivela infatti che il trio diventa quadrangolare o poker, grazie al raddoppio della polarità femminile nella figura di Marietta detta Mari, squillante squillo e sorella spiazzante della barista Giul: come dire, l’importante è chiudere il cerchio con qualche trucco cabalistico.
E così la noia della piccola città è aggirata grazie a una dea ex machina che consente ai due maschi amici, il figlio della borghesia e il figlio del popolo, di riemergere dalla frustratio tridentina in una sorta di monòpoli delle relazioni che è poi l’illusione di essere liberi, quella che vive il criceto zampettante nella ruota di plastica: una città davvero troppo piccola, anche se le applicheranno un bypass ferroviario per convincere quei cretini di criceti a non sentirsi in gabbia.