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Dal Trentino alle Filippine, sognando un altro mondo. La storia controcorrente di Annamaria Zamboni, Piccola Sorella dei più poveri

DAL BLOG
Di Paolo Ghezzi - 18 agosto 2023

Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)

Il Vangelo, se si stringe all’essenziale, è una cosa semplice. Vieni e seguimi – dice l’uomo di Nazareth – il regno di Dio è dei poveri e dei piccoli, Dio rovescerà i potenti dai troni ed è molto improbabile che un ricco sia ammesso al banchetto dei beati. Prendendo sul serio queste parole semplici, un uomo complicato come Charles de Foucauld (nato a Strasburgo nel 1858), da nobile rampollo e militare focoso che era, è andato per tre anni a Nazareth per scoprire come ha vissuto Gesù e poi è andato nel deserto del Sahara algerino, tra i tuareg, per essere fratello di tutti. Fino a morire ammazzato, nel dicembre 1916, a Tamanrasset, da qualcuno (rimasto sconosciuto) che non aveva capito che stava uccidendo un fratello che lo amava.

 

I piccoli fratelli e le piccole sorelle di Gesù, al seguito di Charles de Foucauld nascono sulle orme di quest’uomo dal sorriso bruciato dal sole del deserto. Da trentadue anni immersa nella povertà sorridente delle Filippine, e in questi giorni in Italia per il Capitolo della sua congregazione, Annamaria Zamboni, classe 1955, è una delle tre piccole sorelle di Gesù nate in Trentino (le altre sono Fiorella Forti di Romagnano, ora a Roma dopo anni in Palestina; e Rosetta Chiesa della Val di Pejo, nella realtà sempre più affamata di Cuba). Con il piccolo fratello Carlo Mihelcic (che lavora con i migranti in Piemonte) sono i quattro testimoni trentini della “via” di Carlo del deserto, proclamato santo nel maggio 2022 da papa Francesco, che l’ha indicato come modello, insieme a Francesco d’Assisi, nell’enciclica “Fratelli tutti”. Così scriveva: «Io voglio abituare tutti gli abitanti: cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, a considerarmi come loro fratello, il fratello universale».

 

In tutto il mondo, oggi, ci sono diciannove famiglie religiose nate sulle orme di De Foucauld. Le Piccole Sorelle non sono più di un migliaio, circa duecento i Piccoli Fratelli. La famiglia di Annamaria, le Piccole Sorelle di Gesù, ha una speciale consacrazione per i musulmani, con lo stile del dialogo interreligioso dal basso, senza proselitismi né conversioni. Nelle Filippine sono arrivate nel 1976, con l’idea di andare a Mindanao, dove il conflitto tra islamici e cristiani era riemerso, e si manifestava anche in rapimenti di occidentali. Per questo i vescovi avevano chiesto di non mandare in zona missionari di pelle bianca, solo di colore. Così, aperta solo nel 1989, nel 1994 la fraternità a Mindanao è stata chiusa. Come in altri contesti (Medio Oriente, Pakistan, Paesi africani) era una situazione a rischio: la presenza e infiltrazioni di estremisti, affiliati dell’Isis o dei talebani, sono proseguite, con spargimenti di sangue e conseguenti dure repressioni governative. Per questo si è scelto di aprire, nel 2016, dopo Manila, un’altra comunità nell’isola di Masbate, molto povera ma con minori rischi di violenza.  

 

Ha occhi svegli e mani abituate alla fatica, Annamaria Zamboni, che una volta entrata nelle Piccole sorelle ha cambiato nome in Annarita, come segno del cambiamento di vita. La sua chiamata comincia con il frequentare (e “svegliarsi”, come dice lei), all’inizio dei ruggenti anni Settanta a Trento, la Lega missionaria studentesca da cui sono usciti tanti credenti consapevoli delle ingiustizie e anche rivoluzionari pronti a cambiare il mondo… Lei, Annamaria, non aveva bisogno di una conversione radicale come il visconte de Foucauld per comprendere la vita dei poveri, perché ricca non era: suo padre faceva il “trattorista” nei campi del vescovo, a Villa San Nicolò, finché la schiena gliel’ha permesso, e lei, prima di cinque fratelli, fin da ragazzina alle magistrali ha cominciato a lavorare per mettere insieme qualche lira.

 

Le Piccole Sorelle vivono di quel che riescono a guadagnare con lavori “normali”, nel mondo, di preferenza manuali. Lei ha cominciato presto ad “allenarsi”.

“Facevo ancora le elementari e andavo a vendere uova e insalata nei negozi; facevo i calcoli sulle 30-40 lire che mi avrebbero dato al Demattè e sul caffè che avrei potuto comprare. E l’estate lavoravo a Calambrone, nella colonia marina dell’Opera diocesana assistenza, con don Tullio Endrizzi”.

 

Che cosa l’ha portata verso l’orizzonte missionario?

“Beh, erano anni forti, quelli della Lega Missionaria Studenti. Le marce di Mani Tese, a Firenze e a Verona, mi avevano entusiasmato. E poi l’esperienza a Taizé con frère Roger, nel 1973, all’insegna del binomio “Lotta e contemplazione per diventare uomini di comunione”. E ancora la testimonianza di Madre Teresa. Si sentiva l’urgenza di cambiare il mondo … di provarci almeno. Ed è così che a diciott’anni ho cominciato a lavorare al Centro Missionario”.

 

Poteva rimanere lì, nelle retrovie, un lavoro di supporto ai missionari: invece voleva la prima linea, fin da ragazza?

“Continuavo a pensare alle parole di frère Roger: se volete cambiare il mondo, siete disposti a investire tutta la vostra vita, non solo qualche anno? E si cominciava con la preghiera che ti permette di andare a fondo, di te stessa e della realtà del mondo. Così mi sono messa in ricerca. Andavo in ufficio un’ora prima, e pregavo e leggevo: e ho trovato un articolo sulle Piccole Sorelle che vivevano, senza voler convertire nessuno, nelle baraccopoli e tra i nomadi. Non c’era l’indirizzo e non c’era Google. Così mi sono rivolta a padre Sironi che guidava il Gruppo Samuele a Salter (e ci andavamo anche con Fiorella, che diventerà Piccola Sorella anche lei). Lui mi ha detto: vieni con noi per il Giubileo a Roma e te le faccio conoscere”.

 

Era dunque il 1975, lei ha vent’anni e comincia a esplorare quello strano gruppo di suore che non sembrano suore…

“Sì, scoprivo un nuovo mondo. Nel 1977, a Roma, comincio a condividere la loro vita: prima in un appartamento in centro, a vicolo Sant’Onofrio, poi in una delle borgate di baracche a Porta Furba, Arco di Travertino. Nel 1978 ho lavorato un paio di mesi in albergo, vicino a Cinecittà. Poi cinque mesi negli orti dell’Appia, a raccogliere la cicoria romana per i Mercati Generali: un lavoro duro, con la schiena piegata, le vesciche sulle mani. E lì ho scoperto il capolarato: che in quel caso sfruttava le donne della Ciociaria. Poi ho cominciato a imparare un po’ di francese  per  il noviziato, sono stata al Tubet, Aix-en-Provence, la nostra casa-madre. Ho fatto i primi voti nel 1980 a Sanzeno”.

 

La Provenza è la culla della Congregazione: lì la vostra fondatrice Magdeleine Hutin (1898-1989), bella faccia innamorata del Vangelo, figlia di un medico militare che le aveva tanto parlato di De Foucauld, ha trovato l’appoggio del vescovo di Aix e da lì è partita per l’Algeria…

“…dove nel 1939 ha incontrato, sulla tomba di De Foucauld, René Voillaume, che aveva fondato la Fraternità dei piccoli fratelli di Gesù. L’8 settembre di quell’anno, a Touggourt, pronuncia i voti solenni e fonda la nostra comunità. Poi torna in Europa. Accusata durante uno dei suoi viaggi per far conoscere la comunità nascente, di essere una spia dei nazisti, per via di un paio di scarponi tedeschi che le avevano regalato per proteggersi dal freddo, fu riconosciuta innocente dieci minuti prima della fucilazione. Chiede come risarcimento, in piena guerra, un viaggio a Roma, dal Sud della Francia. Incontra Montini, il futuro Paolo VI, che capisce subito il suo progetto e condivide i suoi sogni, e la sosterrà sempre”.

 

Siete ragazze avventurose, voi Piccole Sorelle. E anche lei riparte da Roma, no?

“Da un albergo di Roma, vicino a Borgo Pio, passo a fare lavori stagionali in Abruzzo e poi dal 1983 al 1985 vado a Lioni, cittadina rossa dell’Irpinia terremotata, a vivere con la gente nei prefabbricati. Ho scoperto un altro modo di vivere il tempo, un’altra cultura nella nostra Italia. Ho lasciato il cuore, nel Mezzogiorno, è stata un’esperienza che mi ha segnata profondamente, con tutte le sue contraddizioni tra una religiosità tradizionale e la ricerca giovanile di una giustizia sociale, in paesi dove la criminalità organizzata stava arrivando con i soldi della ricostruzione”.

 

Lei ha fatto studi teologici?

“Un anno al Sant’Anselmo e uno alla Gregoriana prima di fare i voti perpetui ad Assisi nel 1988”.

 

Ma poi continuava l’ “università della vita”, le esperienze di fraternità dentro il lavoro quotidiano.

“Sì, sono tornata a Lioni in Irpinia: andavo a raccogliere pomodori nei vivai pugliesi, partendo alle 4 del mattino. Giornate di lavoro duro e sottopagato: le nostre compagne che in Romagna facevano il nostro stesso mestiere prendevano in un’ora ciò che noi guadagnavamo in un’intera giornata. Poi mi è stato chiesto di aprire una comunità nel sud della Toscana, zona rossa, a Chiusi nel quartiere Carducci, rione operaio: ci sono stata pochi mesi: dall’agosto 1990 al marzo ’91. Bello il legame che si è creato con i vicini anticlericali, mentre la Chiesa sembrava chiusa sulla difensiva”.

 

E poi, finalmente, dopo il sud e il centro Italia, il lontano Oriente. Perché le Filippine? Perché l’Asia?

“Sarà che erano gli anni della guerra nel Vietnam, sarà che, lavorando al Centro missionario, avevo fatto una ricerca per preparare il viaggio alla scoperta dei missionari trentini che vi operavano, l’Asia mi pareva un luogo interessante, con il cristianesimo in minoranza, Chiese non ancora radicate, un certo fascino per la contemplazione. Mi hanno proposto le Filippine e mi hanno dato 5 mesi per imparare un po’ di inglese. Nell’ottobre 1991 mi sono imbarcata sul volo per Manila. Sbarcata dall’aereo, mi è sembrato di entrare in un forno. Era il benvenuto dell’Asia”.

 

Dove si è inserita, a Manila?

“Le Piccole Sorelle avevano riaperto la presenza in una baraccopoli, affittando una casetta di 4mx5 senza frigorifero e senz’acqua – un solo rubinetto pubblico per 500 famiglie, si faceva la coda dalle tre del mattino, un filo d’acqua solo 3 ore al giorno – con la pioggia che filtrava dal tetto, e frequenti lunghi tagli di corrente: è stato un primo anno impegnativo dal punto di vista fisico, e intanto ho cominciato a imparare il tagalog, lingua nazionale, insieme all’inglese”.

 

Ha capito subito che era la vita che aveva cercato?

“Ho sentito che era quello che avevo desiderato, ha risposto alla mia sete esistenziale, come una forma di restituzione ai Paesi impoveriti che avevo sognato negli anni giovanili”.

 

Ora dove vive?

“Nell’isola di Masbate, alla periferia del capoluogo. Dalla nostra collina si vede il mare con le piscicolture: la diocesi ci ha dato in uso, per abitarci e coltivare, un terreno a piantagione di cocco. Durante il Covid, la nostra prima capanna di paglia è bruciata perché sotto le ceneri era rimasta della brace e il vento ha innescato il rogo, come spesso accade. Quando non arrivano i tifoni che distruggono tutto e bisogna ricominciare da zero. Siamo in tre: Serafina, una coreana di 65 anni, e Binky, una filippina di 53: lei lavora in un panificio con 20 operai, porta a casa un piccolo stipendio e anche qualche avanzo prezioso, briciole di pane, biscotti non riusciti bene… E gli avanzi dei pasti che consumano gli operai, e usiamo per i nostri cani e le galline”.

 

Che cosa ha imparato, nelle Filippine?

“Che lo spirito contemplativo dell’Asia è diverso da quello che immaginavo. Noi pensiamo al silenzio, alla concentrazione … Nelle metropoli dell’ Asia il è rumore continuo, ma dentro questo rumore c’è calma, accettazione, ascolto per comprendere e sopravvivere. Ho imparato che noi occidentali quando vediamo le cose storte pretendiamo di cambiarle subito, mentre l’orientale si mette prima in ascolto, osserva, cerca di capire e penetrare la realtà, l’accoglie prima di controllarla”.

 

Come sono le relazioni umane tra voi Piccole Sorelle e i filippini?

“I rapporti nascono facilmente, più difficile è creare legami profondi, sinceri, franchi. Sono anche suscettibili e ti guardano dal basso verso l’alto: c’è un passato coloniale, un bisogno di essere apprezzati e valorizzati”.

 

Le sono mai venuti dubbi su quel Dio che quarant’anni fa ha deciso di seguire?

“No, Dio è una relazione che accompagna la vita. Certo, ci sono momenti in cui ti pare di aver seminato al vento. Ma poi impari ad apprezzare i piccoli gesti e le piccole cose. E poi papa Francesco è stato una sorpresa e un vento dello Spirito. Certo una parte della Chiesa si arrabbia per le sue aperture ma noi ci sentiamo dentro quest’onda di fiducia e di speranza, in sintonia con lui al 150%: sapendo che siamo sale e lievito della terra, non massa. Fratelli tutti, fratelli e sorelle di tutti”.

 

Nessuna delusione perché non c’è un’apertura al sacerdozio femminile?

“Io credo,come una parte di donne teologhe, che la valorizzazione della donna nella Chiesa non passa necessariamente per forme clericali: ci sono tanti spazi dove la presenza femminile potrebbe essere valorizzata, secondo le specifiche competenze, cominciando dall’accompagnamento spirituale delle persone e anche quello pastorale delle comunità”.

 

Lei – Sorella Annarita/Annamaria – ha ormai girato la boa dei 65 anni, come vede il suo futuro personale: nelle Filippine fino alla fine?

“Intanto, finché gli acciacchi sono gestibili, resto nelle mie Filippine. Quando arriviamo ai 75 anni siamo incoraggiate a scegliere se continuare la presenza là dove siamo o rientrare nel Paese di origine. Ma dovunque cerchiamo di continuare a vivere la missione secondo lo stile dell’essere con, andando nelle case di riposo pubbliche, per vivere la condizione di anziane tra gli anziani, come accade per esempio a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, dove 4 sorelle (provenienti da esperienze diverse: Cuba, Portogallo, Grecia e Niger) vivono insieme, sorelle attente agli ospiti e per il personale”.

 

Nostalgia del Trentino, mai avuta?

“Negli anni giovanili, gli anni dell’entusiasmo, no. Quando i tuoi genitori invecchiano, ti viene un po’ più voglia di tornare. Anche se poi scopri – come mi è successo in occasione dei funerali di mia mamma dieci anni fa – che qui in Europa il tempo delle relazioni è sempre più strangolato dal vivere di corsa, anche il momento dell’addio. Nelle Filippine si prende anche il tempo di vivere insieme il lutto: i morti vengono imbalsamati, gli si fa compagnia per sette-otto giorni, si accolgono le persone che vengono per le condoglianze, si dà spazio ai sentimenti, c’è una bella capacità di celebrare, sia la vita che la morte. Noi qui tendiamo ad essere protagonisti, laggiù si sente più facilmente la mano di Dio”.

 

E con il dolore ingiusto, con la sofferenza degli innocenti, come la mettiamo? Se Dio è onnipotente, come credono i cristiani e non solo, perché permette il male?

“È una domanda complessa e difficile, che non può avere una risposta netta. Io credo che l’amore di Dio prevalga sulla sua onnipotenza. Dio ha limitato la sua onnipotenza per amore: in Gesù fatto uomo ha vissuto il limite, ha sofferto ed è morto. La malattia resta un mistero, anche se la scienza continua ad indagare, e noi cerchiamo sempre i colpevoli, abbiamo bisogno di una capro espiatorio… Se gli orientali tendono ad accettare la realtà e le ingiustizie sociali, prodotte dall’uomo, a noi sembrano fatalisti. Noi, nel nostro piccolo, scegliendo di essere con i poveri, prima che per i poveri, ci troviamo spesso confrontate a limiti che sembrano invalicabili, ed impariamo proprio dai poveri, la fiducia in un Dio che è sempre buono e non si dimentica di chi spera in Lui”.

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