Tra un’eroica opposizione e un vile servilismo, Tacito sembra scegliere una terza via ma la sua è una incapacità di sperare, e questo ''fa di lui, tra i grandi poeti, il più vicino al nostro tempo''
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
Il problema dello storico non è il passato, è il futuro, è lo sgomento di fronte alla precarietà di ogni opera umana. Un edificio che affonda le fondamenta nel fango e nel sangue non può durare. Così Tacito intuisce in ogni proconsole un tirannello esoso e libidinoso, in ogni senatore uno spirito prono, in ogni imperatore la prova vivente che l’animo umano può resistere alle privazioni ma non al potere. Che fare?
Tra un’eroica opposizione e un vile servilismo, Tacito - scrittore di storia ma anche politico - sembra scegliere la terza via della volonterosa accettazione di un governo di cui non si condivide la politica, per cercare comunque dei benefici per la patria. E’ la via di coloro che pongono la salvezza dello Stato come imperativo primario, posponendo le proprie ideologie a quel fine: il loro motto è la patientia.
Lidia Storoni Mazzolani delinea con tale implacabile efficacia i dilemmi dello storico patrizio - vissuto nella seconda metà del primo secolo d.c. - il quale avverte l’indecenza del colonialismo romano. “La rapina, l’assassinio, lo stupro lo chiamano governo e dove hanno fatto il deserto ivi dicono che regna la pace” scrive Tacito in Agricola (XXX, 4).
E comparando le usanze dei Germani con quelle invalse presso i Romani, scrive ancora che i primi non si danno al vizio “per farsi avanti nel mondo”: “là, i vizi non fanno sorridere; corrompere e farsi corrompere non si chiama saper vivere” (Germania, XIX, 1).
Tacito è consapevole di questo stato di cose. Tra la vergogna dell’esser servi del potere (servire pudet) che non impedisce comunque alla maggioranza di essere prontamente acquiescente e, al lato opposto, il sentenzioso distacco o l’opposizione idealistica di chi - come gli stoici - si comporta “come se si trovasse nella Repubblica di Platone e non tra la feccia di Romolo”, Tacito si chiede se “tra l’ardire sdegnoso e l’ossequio avvilente” ci possa essere un’altra strada “più fattiva” che non ci defraudi dei nostri anni migliori.
Ma qui si coglie - pur fra un vigoroso tentativo di servire lo Stato da uomo libero - la sua “desolata impotenza”. Tacito non diserta la sua appartenenza alla classe patrizia, la quale ha come credo la potenza e la durata di Roma: non può e non cerca di abbandonare questa idea di potestas, pur sapendo - come avrebbe ripetuto Foscolo a proposito di Machiavelli - “di che lagrime grondi e di che sangue”. La sua - conclude l’autrice - è una incapacità di sperare: ed è quello “che fa di lui, tra i grandi poeti, il più vicino al nostro tempo”.