E’ una tematica pressante in tutta l’opera kafkiana. ''La colpevolezza è sempre fuori discussione''. Ne Il processo l’angoscia, il terrore e l’amarezza raggiungono i livelli insoliti
Socialista dal 17° anno d'età, continua a dedicarsi allo studio del pensiero progressista e democratico
“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”.
Parte così Il processo di Kafka, una spietata trattazione contro il potere burocratico, in particolare contro la tirannia degli apparati giudiziari, inaccessibili e programmaticamente vessatori verso il cittadino-suddito. E non tanto per “la durezza di cuore” del singolo burocrate. Kafka fa dire ad uno di loro: "Forse a noi tutti piacerebbe aiutare, ma essendo impiegati giudiziari assumiamo facilmente l’apparenza della durezza, di chi non è disposto a dare soccorso”. E’ dunque la machina, l’implacabile ruota tribunalesca, che abbrutisce i singoli operatori.
E’ una tematica pressante in tutta l’opera kafkiana. “La colpevolezza è sempre fuori discussione”, era il motto dell’ufficiale con funzioni anche giudiziarie di cui Kafka parla in un altro memorabile romanzo, Nella Colonia penale.
Questo clima di cupezza e di rovina è per Kafka la norma fondamentale del mondo moderno. Nel romanzo Amerika così egli scolpisce il destino dell’umanità tapina: “[...] Il verdetto era determinato dalle prime parole che salivano alla bocca del giudice in un impeto di collera”. Ma è ne Il processo che l’angoscia, il terrore, l’amarezza raggiungono i livelli insoliti che dopo d’allora verranno appunto definiti “kafkiani”, quando si mescolano ad un filone di comicità che rende ancor più definitivo lo scacco per l’umanità caduta nella trama burocratica. E questa comicità è resa ancor più struggente sapendo che Kafka leggendo con gli amici passi del romanzo scoppiava a tratti in risate irrefre-nabili.
Non è tragicomica la scena finale de Il processo? I due carnefici prelevano Josef K. e quest’ultimo senza proteste, senza cercare di capire, lascia mettere le sue mani nelle loro mani: “Josef K. procedeva rigido tra loro; i tre formavano adesso una tale unità che se qualcuno avesse voluto fare a pezzi uno di loro, sarebbero andati in pezzi tutti. Una unità come la formano solo le cose inanimate”. E quando alfine uno gli stringe la gola e l’altro lo trafigge al cuore con un coltello, Josef non grida: egli si spegne passivamente, imprimendosi negli occhi le facce - “guancia contro guancia” - dei carnefici che stanno guatando il suo momento finale. Josef K. riesce solo a dire: “Come un cane”.
Muore proprio come un cane, vinto nella vita e anche dopo la morte: muore per una colpa non commessa, ma “di questa colpa - ha commentato Primo Levi - si può portare vergogna, fino alla morte e forse anche oltre”. Sì, come un cane - e queste sono le ultime parole del romanzo - “come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”. Arrivederci, mite Josef, assiduo compagno delle nostre vite, paradigma d’umani destini.