Un sogno realizzato: l'ascensione sul Re Ortles
Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia.
Da quando frequento il mondo della Montagna, due sono i sogni che ho sempre coltivato: l’ascensione sull’Ortles e la scalata del Campanil Basso. Dico subito per il secondo sogno, autorevoli ma perfide voci mi hanno sempre detto che un trentino, per essere veramente tale, dovrebbe aver raggiunto, almeno una volta nella vita, il Campanil Basso nel Brenta,”by any fair means” ovvero senza trucchi, quali il terribile scherzo fatto al mitico alpinista Hermann Keinwunder, portato in cima “drogato e ubriaco” senza il suo consenso e, per questo, promotore del progetto “Ultravetta” che prevedeva il sollevamento della cima tramite un complicato sistema di martinetti, rimanendo così fedele al suo imperativo di non raggiungere mai una cima o un obiettivo nella vita. Ma non perdiamo il filo del discorso: se per questo secondo sogno lascio ancora uno spiraglio aperto, nonostante le mie sessanta primavere mi suggeriscano di scendere a più miti consigli, il primo invece, l’Ortles, è stato finalmente coronato sul finire dell’estate scorsa.
L’Ortles (o Ortler) è una delle montagne più imponenti delle Alpi Retiche meridionali e rappresenta il punto culminante del massiccio. Con i suoi 3905 metri di quota, risulta essere la vetta più elevata della provincia autonoma di Bolzano e della regione Trentino-Alto Adige. In passato, prima che l'Alto Adige/Südtirol venisse accorpato al territorio italiano nel 1919, era anche la più alta vetta dell'Impero Austroungarico (oggi la montagna più alta dell'Austria è il Großglockner).
Dopo anni di promesse (“’st’an el fago!”) l’occasione si è propiziata grazie al sessantesimo genetliaco del vorace amico Max Meru, l’ex meditabondo buddista e divoratore di cime. Un invito perentorio (“o stavolta o mai più!”) allargato pure al nuovo amico ultrasessantenne Maurizio “Mittercosa?” da Ronzone, l’unico altononeso di origine altoatesina, che nel suo amichevole interloquire spazia con disinvoltura dal dialetto trentino/noneso al dialetto altoatesino con la medesima dolce cantilena trentina, con risultati destabilizzanti. Sommando quasi 200 anni in tre, nel pomeriggio del 9 settembre partiamo alla volta di Solda ben equipaggiati e determinati. Parcheggiata la macchina, saliamo con calma e carichi di pesi zaineschi verso il rifugio Payer a 3029 m.
Oltrepassato il Rifugio Tabaretta ci concediamo disquisizioni sull’inutilità di un superato obiettivo “giovanile”, ovvero quello della ferrata Tabaretta, tanto dura quanto assurda in quanto concepita più con l’idea di lunapark sferragliante della Montagna, che come via “normale” di ascensione all’Ortles.
“Se non portano in vetta, io le smantellerei tutte!” e con questa bellicosa dichiarazione di guerra, la discussione si è conclusa. Dopo qualche ora siamo quindi pronti per cena e dormita presso il rifugio Payer: qui facciamo conoscenza della nostra Guida Alpina Hubert (il capo delle guide alpine di Solda) che mettendoci subito in riga, ci ordina perentoriamente di dimostrare che sappiamo mettere i ramponi agli scarponi nel modo corretto. Ovviamente trova dei difetti in ognuno di noi e nel mio caso mi mostra come devo “stringere” il puntale dei ramponi: stringere è un eufemismo! Mi tira le stringhe come se volesse strangolarmi i piedi. “Defi strincere molto forte, ja? Se nò fai in fondo a kiacciaio!”.
.....e io, muto!
Arriva il momento di andare a letto e i miei compagni, consci del rischio mortale a queste quote di rimanere svegli a causa del trattore che vive in me, si imbottiscono di tavor come due tossici. Me ne regalano una metà pillola pure a me, casomai....
Ore 4.30: la sveglia implacabile imposta da herr Hubert annuncia la nostra attesa giornatona. E’ il 10 settembre 2020. Di descrizioni a questo punto se ne trovano molte sul web. Provo quindi a raccontare le sensazioni e i passaggi più rilevanti. Innanzitutto è buio pesto e alla luce delle frontaline, in quasi completo stato di tranche, Hubert ci punta la frontale in faccia per sapere chi è il più scarso e chi il migliore dei tre. Il risultato arriva dopo qualche centinaio di metri su un traverso innevato sotto punta Tabaretta: la guida davanti, a seguire in cordata il sottoscritto, terzo l’amico Maurizio e in coda (secondo per esperienza rispetto a Herr Hermann) il l’ex buddista meditabondo, Max.
Si procede in silenzio, illuminando solo un breve tratto davanti ai piedi, per un lungo tratto caratterizzato da saliscendi molto laboriosi ed esposti, fino ad una cresta aerea di cui non ci rendiamo conto a causa del buio (e forse è stato meglio così), dalla quale si scende fino ai piedi di un tratto attrezzato con una catena, altro una sessantina di metri. Niente di difficile ma sarà al ritorno che scoprirò con “orrore” da dove siamo passati! Giunti di nuovo in cresta si cammina e si gattona senza assicurazioni sul filo, attraverso placche lisce; si risalgono alcuni gradoni con un passaggio di terzo grado (sempre legati) facendo attenzione ai suggerimenti della guida che ci fa passare il nostro tratto di corda tra “maniglie”, spuntoni di roccia e qualche chiodo fisso in modo che eventuali scivolate non abbiano esiti...spiacevoli.
Si arriva finalmente al ghiacciaio vero e proprio. Il sole ormai rende inutili le frontali ed è giunto il momento di infilare i ramponi da ghiaccio. Sembrerebbe tutto più facile ora, ma in realtà non è così. Siamo all’imbocco della Eisrinne: capo Hubert ci sollecita nelle operazioni di vestizione e legatura perché il posto non è così sicuro a causa di pietre che possono piovere dalla roccia soprastante......insomma, mai una gioia!
Infatti, tra barriere di seracchi prima, scivoli ghiacciati e un traverso ripido e malvagio che mi farà letteralmente piangere al ritorno, arriviamo finalmente ad un balcone panoramico dove possiamo fare una pausa di non più di 30 secondi. Come ogni guida di alta quota, Hubert infatti, piuttosto che fermarsi a farci rifiatare (abbiamo superato i 3500 metri da un bel po'), ci obbliga a rallentare ulteriormente il passo negli infiniti zig zag di risalita. Non si ferma nemmeno un secondo per passare la corda che ci tiene legati da un lato all’altro dei fianchi, con relativo cambio di mano della piccozza: tutto deve essere fatto “al volo” e se rallenti......tira la corda come se fossimo bestie alla gogna.
Malgrado ciò, non lo odiamo, anzi: un senso di gratitudine infinito ci pervade, perché senza di lui non saremmo sicuramente arrivati in cima né tornati, come si capirà più avanti. Pur se in un labirinto di crepacci, molti dei quali perfidamente nascosti da una sottile coltre di neve, continuiamo ad incedere implacabili anche perché vediamo la meta finale, così come gli enormi muri ghiacciati sommitali che si affacciano sul lato di Solda. Il fiato è corto, la pendenza è sostenuta ma va piano piano calando: a gesti trattiamo con Hubert pause di 10 secondi ogni venti minuti per riprendere ossigeno ed un battito cardiaco più umano: non dimentico di avere avuto qualche problemino cardiaco in passato, ma tutto sommato a parte il fiato corto e un po' di stanchezza generale, mi sento bene. In altre occasioni (Palla Bianca, Cima Bianca, Cigot dal canalone sud, ad esempio) mi sembrava di aver fatto più fatica.
Siamo ai pianori sommitali e mantenendo un passo regolare e lento con sole due micropause con la scusa di soffiarsi il naso, in poco tempo siamo finalmente alla croce di vetta! Sono passate quasi 5 ore dalla partenza notturna, sono circa le nove del mattino e potremo fermarci una mezzoretta, perché la cima non è così grande e anche se noi siamo stati una delle ultime cordate ad arrivare in quanto più numerosi rispetto alle altre, dalla via Hintergrat salgono parecchi alpinisti e dobbiamo continuamente spostarci per far fare le foto di vetta. Purtroppo una nuvola leggera impedisce a tratti le note e stupende visioni sul Cevedale (raggiunto lo scorso anno) sul Gran Zebrù e il Piccolo Zebrù. Osservo chi sale dalla via Hintergrat, più alpinistica e difficile, ma per ora senza neve. A giudicare dall’aspetto sembra che chi sia salito da quella parte abbia fatto meno fatica. Non hanno né ramponi né picozze, ma ovviamente hanno letteralmente arrampicato più di noi. Tutti però siamo felici e solidali per il fatto di trovarci su una delle cime più ambite almeno per noi comuni mortali, alpinisti della domenica (senza vergogna). Sapendo che il nostro Hubert è arrivato in cima 750 volte e una volta pure con suo figlio di 11 anni........di sicuro non ci fa sentire superuomini.
A questo punto inizia il bello: foto di rito, baci e abbracci, “il prossimo anno il Monte Bianco, il Cervino, il Graz Zebrù con gli sci....” e altre amenità varie che si dicono ogni volta che sia arriva su una qualche cima gloriosa, e si scende. Tutto bene per la prima mezzoretta, ma poi, al balcone da dove si cominciava a vedere la cima, inizia la parte paranoica: innanzitutto Hubert ci grida di toglierci dal punto dove ci eravamo fermati per riposare un minutino, perché eravamo sopra un crepaccio perfido, ben nascosto sotto uno straterello di neve. Arriviamo così al temuto traverso ripido percorso in salita: è lungo circa un centinaio di metri. Una caduta in quel punto sarebbe fatale poiché lo scivolo ci porterebbe ad un salto di centinaia di metri. E’ vero che siamo legati, ma per sicurezza puntiamo le picozze dalla parte della becca nel ghiaccio. Ad ogni passo che in realtà è un gradone di 50 cm verso il basso, si fa fatica ad estrarre la punta della picozza ed è facile sbilanciarsi. Mi prende un dolore insopportabile al ginocchio sinistro, quello a valle: ogni passo è una fitta e tra la fatica accumulata, il nervosismo per l’attenzione che si deve prestare ad ogni passo e il dolore, impreco qualsiasi divinità mi capiti a tiro, al punto che Hubert mi chiede se preferisco essere calato in corda doppia più in basso, dove poi verrebbe a prendermi. In un impeto di orgoglio rifiuto gentilmente (almeno credo) e conto mentalmente i passi per distrarmi. Finisce anche questo tratto, ma altri ci attendono: affrontiamo il salto di terzo grado in discesa, la parte assottigliata della cresta dove ci rendiamo conto dell’esposizione impressionante, la parete attrezzata con la catena fino alla seletta e la risalita sul versante opposto.....
Non mi rendo conto del tempo che passa, ma mi sembra che la discesa sia più faticosa della salita: seduti in un piccolo pianoro possiamo slegarci e fare mente locale. Innanzitutto la guida Hubert ci ha fatto notare come spesso chi sta davanti nella cordata e non conosce la zona, tende a sbagliare e a perdere la via perché la zona è soggetta a piccole frane e di settimana in settimana bisogna modificare il percorso. Le coppie di alpinisti senza guida infatti sbagliano spesso e bisogna poi andare a recuperarli o sono costretti ad allungare il percorso.
Il tratto con la catena poi è il più rischioso di tutti perché due enormi massi grandi come una corriera stanno per staccarsi e porteranno giù tutto: Hubert dice che è questione di giorni e poi dovranno riattrezzare la via... Insomma una via crucis, ma confido nel fatto che ci venga dipinta un pò più nera di come sia per non ingenerare, tramite il passa parola, la voce che si possa salire l’Ortles in autonomia senza conoscere la zona molto bene. Sono le 14 e siamo di nuovo al Rifugio Payer: il ritorno è stato un pò lento, ma è anche vero che nessuno ci rincorre. Ormai è fatta, il primo dei due sogni è stato coronato anche se al momento non me ne rendo nemmeno conto vista la fame che morde. Riguardando le foto si ricostruisce la memoria e al ritorno a Solda, che comunque affrontiamo belli carichi di peso per un altro paio di orette, ci premuriamo di avere in “certificato di salita” presso la sede delle Guide Alpine di Solda. La cima più alta dell’ex Impero è stata raggiunta e ora posso aspirare al mio secondo sogno, quello del Campanil Basso, età e forze permettendo. Preparo comunque un piano B che preveda almeno il Monte Bianco o un altro 4000 sempre che l’infido virus, che non ci permette di spostarci, scompaia, con la sua ombra tetra, dai nostri sogni nel cassetto.