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Il pericolo è dietro l'angolo e gli occhiali pure, 16 chilometri tra neve, ghiaccio e rametti salvifici per raggiungere il Rifugio Campogrosso

Da allora Antonella e Davide non hanno voluto vedermi per molti mesi e solo in tempi recenti hanno accettato nuovamente la mia compagnia in montagna. La loro diffidenza non è stata tanto per il ricordo del rischio corso assieme, ma per paura che potessi dimenticarmi in giro qualcosa e che facessi fare loro un’altra sgaloppata di 16 km “alla conquista dell’Inutile”
DAL BLOG

Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia. 

Prendo il telefono e dico: “Due settimane fa ho dimenticato un prezioso paio di occhiali da sole del mio unico sponsor (che il Signore lo abbia in gloria!) in un rifugio. Avete voglia di accompagnarmi a riprenderlo?”. Dall’altra parte del telefono una coppia di amici del mantovano: la splendida Antonella e il suo alfiere Davide. “Considerato il periodo invernale, sarà opportuno portarsi ramponi e picozza!”. Imbrago e spezzone di corda per legarsi ci sembrano eccessivi.........e invece, come vedremo, sarebbero stati necessari.

 

Sorvolo sul quale fosse il rifugio dove avevo dimenticato gli occhiali in una escursione precedente, pregustandomi la sorpresa. Gli ignari amici, dopo una levataccia per essere puntuali a Rovereto sud per la salita a Pian delle Fugazze dove la catena del Monte Sengio contende il Passo al Monte Pasubio, danno per scontato che gli occhiali siano a metà di qualche itinerario e non fanno domande. Dopo i vari caffè di rito e “complimenti alla signora”, ci incamminiamo lungo la strada che porta all’Ossario del Pasubio, ovvero la cosiddetta Strada del Re, proseguendo poi fino al bivio con il sentiero dell’Emmele. La salita procede con regolarità sulla vecchia strada militare: per ora non c’è ancora neve e solo al nostro incontro con una famiglia di camosci comincia la dura, perfida, ghiacciata neve.

 


 

Giunge il momento di indossare i ramponi sugli scarponi e di metter mano alla picozza: il sentiero infatti, percorso più volte in stagione estiva, in inverno risulta insidioso in quanto completamente ricoperto da neve ghiacciata a causa dell’esposizione. Il risultato è che le massicciate in pietra del sentiero militare scompaiono sotto un manto di neve con inclinazione costante che spesso si restringe in imbuti che precipitano a valle in modo impressionante. Soprattutto in prossimità della Cima Cornetto, per la quale dovremmo affrontare un breve tratto attrezzato.

 


 

 

Facile in estate, ma impossibile da fare in inverno col ghiaccio e senza l’attrezzatura specifica. Prima della Sella del Cornetto dobbiamo attraversare poi una specie di vajo molto ripido: uno alla volta con picozza ben piantata e ramponi ai piedi, passiamo con prudenza. Un velo di neve ventata da l’impressione di affondare bene punte aguzze, ma mentre si passa, guardando in basso ti sale quella leggera ansia da imprevisto (“e se parte un lastrone verso il basso con me sopra? Dove vado a sfracellarmi, qualche centinaio di metri più in basso? A destra o a sinistra?”). Malediciamo la decisione di aver lasciato a casa imbrago e corda, soprattutto quando arriviamo in vista della parete attrezzata dove altri due alpinisti stanno scendendo in corda doppia.

 


 

Lasciamo perdere la cima Cornetto e proseguiamo con l’idea di fare tutto il giro alla catena del Sengio. Il sentiero è molto bello e panoramico e alterna tratti al sole e tratti all’ombra a seconda dell’esposizione. Continuiamo a tenere i ramponi, anche quando non ce ne sarebbe bisogno, sui tratti rocciosi. Ci infiliamo in gelide gallerie, sbuchiamo al sole carezzando i pini mughi che emergono dalla neve. Camminando in fil di cresta arriva il momento in cui, valutando che non avremmo più trovato neve, ci togliamo i ramponi e leghiamo la piccozza allo zaino anche perché stiamo scendendo di quota.

 

Ma ecco il punto. Giriamo un angolo roccioso e il sentiero scompare sotto un “ginocchio” di neve che porta direttamente in un imbuto di cui non vediamo la fine. E’ largo non più di due metri: prima e dopo, il sentiero è libero dalla neve, ma lì è come se ci fosse una cascatella di ghiaccio: e chi ha voglia di rimettersi i ramponi ormai riposti nello zaino? Valutiamo che passando un po' più in alto, tenendosi ai rami dei mughi, con due falcate si dovrebbe passare l’ostacolo.

 

 


 

Decido di passare per primo per fare gli onori di casa e valuto i radi pini mughi posti invece sotto il sentiero: “Mal che vada” penso “potrò sempre afferrare quei rametti......” . Tutto bene al primo passo con il piede a valle e la punta a monte per andare ad afferrarmi ai mughi di sopra, ma al secondo passo, quello con il piede a monte, sento che tutto il mondo mi si rovescia sottosopra. Non sono riuscito nemmeno a raggiungere i rami salvifici posti sopra e contemporaneamente sento Davide urlare :“Nooooooooooooooo!”.

 

Ciò basta a darmi una scossa adrenalinica e mentre ormai sto scivolando verso il baratro, con le mani inguantate riesco ad afferrare quei santi rametti scheletrici posti qualche metro più in basso sotto la traccia, sui quali pensavo che non avrei mai fatto troppo affidamento. I rami resistono al mio peso e allo strattone, i piedi penzolano nel vuoto e sono disteso di pancia a cavallo del “ginocchio” ghiacciato cercando con occhi speranzosi, i miei due compagni qualche metro sopra di me.

 

Con cautela e aiutandosi con una racchetta, Davide riesce ad allungarmi la sua picozza che estrae dallo zaino velocemente. Cerco di puntellarmi un po' con i piedi, scalciando nella neve indurita in modo da formare dei gradini sui cui scaricare il peso. Puntellando la picozza e puntellando dove possibile i piedi, facendo ancora affidamento ai rami del pino mugo, riesco a uscire da quella situazione poco simpatica e a rotolare letteralmente sul ghiaino oltre la cascatella di ghiaccio. Sono stranamente calmo e lucido: solamente qualche ora più tardi e per qualche notte mi sale la tremarella a pensare alle possibile nefaste conseguenze.

 


 

Immagino le rampogne degli amici e conoscenti: “Mai cavarse i ramponi! E la picozza, ‘sa te servela!? Ma se mati a nar senza ligarve? Va là, asen!”. Riprendo mesto in cammino incrociando talvolta altri tratti ghiacciati e con le orecchie basse ci infiliamo di nuovo gli scarponi nei ramponi ed estraiamo le picozze, fino ad arrivare, superato il bivio alla forcella Baffelan, al Rifugio Campogrosso. “Prendi i tuoi occhiali e torniamo dalla strada di Malga Boffetal sull’altro versante e più in basso!”. “Veramente gli occhiali...non sono qui...!”. “Come noooo?! e dove sono??”. “All’albergo a Passo, alle Fugazze, dove abbiamo parcheggiato.......”.

 

Sorvolo su quella che fu l’atmosfera plumbea lungo la strada del ritorno: d’altra parte, questa è anche la storia triste della fine di una amicizia nata sui monti: da allora Antonella e Davide non hanno voluto vedermi per molti mesi e solo in tempi recenti hanno accettato nuovamente la mia compagnia in montagna. La loro diffidenza non è stata tanto per il ricordo del rischio corso assieme, ma per paura che potessi dimenticarmi in giro qualcosa e che facessi fare loro un’altra sgaloppata di 16 km “alla conquista dell’Inutile”.

 


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