I sepolti in casa e le piramidi, città di vivi e città di morti
Rapito dalla Montagna anni fa, pratica escursionismo, percorre vie ferrate e frequenta qualche falesia e palestra di roccia.
La morte è tornata prepotentemente nella nostra quotidianità, con la pandemia abbiamo la possibilità di ripensare alla sua dimensione collettiva (Qui puntata 1 - Qui puntata 2 - Qui puntata 3).
L’immagine del passato più antico ci è giunta quasi sempre mediata e riproposta in negativo nella mimesi delle necropoli o delle sepolture, vere e proprie riproduzioni sintetiche delle città delle quali si è persa memoria o i cui resti sono relitti sparsi e spesso irriconoscibili.
Perfino le piramidi, monumenti di estrema astrazione, contengono al loro interno i simulacri della vita quotidiana, la “stanza del doppio” che, riproponendo situazioni di vita, riproietta e prolunga oltre la morte un intero sistema vivente.
Le piramidi egiziane erano una sorta di dispositivo ricettore, un oggetto-medium concepito per ricevere l’irradiamemto psichico dall’Aldilà e, proprio per attirare l’irradiamento postumo del morto, l’oggetto-medium doveva essere impregnato di tutti i suoi ricordi. Per questa ragione gli utensili e gli arredi del defunto venivano sepolti con lui. La tomba egiziana costituiva quindi una specie di apparato di comunicazione con l’altro mondo.
La città dei morti di Tebe, per la sua dimensione gigantesca, richiedeva evidentemente uno sforzo operativo e di attività di migliaia di impiegati, operai e soldati per la sua difesa, così da renderla al tempo stesso una vera e propria città di vivi.
All’origine, la città dei morti è antecedente alla città dei vivi, non solo perché il viaggiatore che arrivava nella città greca o romana incontrava innanzitutto i sepolcri e le stele tombali, ma soprattutto perché prima che l’uomo occupasse in permanenza una località, già esisteva la dimora stabile dei morti. Così la grande biblioteca universale, oltre un certo momento storico, non ci restituisce più la storia dell’uomo e il senso del nostro passato attraverso i manoscritti, ma attraverso le necropoli.
Agli albori delle civiltà greca e romana, i morti venivano seppelliti nelle case, all’interno della città; in tal modo la città dei vivi e la città dei morti coincidevano. Difendendo la propria casa contro gli invasori, si difendevano anche i propri morti, impedendo la profanazione delle loro tombe.
Poi, per motivi igienici, i morti furono seppelliti fuori dalle città, lungo le strade: gli Ateniesi avevano a disposizione anche un cimitero cittadino, riservato ai ricchi, ai piedi dell’Acropoli, nel quartiere dei ceramisti. Il cosiddetto “Ceramico”. Lungo le strade, le tombe erano segnalate dalla presenza di una colonna funeraria, di un vaso, di una statua antropomorfa o simbolica (Sfinge, leone, toro) o di una stele.
A Roma, nel periodo repubblicano, solo i poveri e gli schiavi erano seppelliti alla rinfusa nelle fosse comuni; i ricchi e coloro che potevano permettersi di pagare la legna sufficiente per bruciare un corpo, praticavano la cremazione. In seguito, in età imperiale, il ceto più abbiente ritornò all’usanza dell’inumazione, cosa che determinò la nascita di un artigianato specializzato per i sarcofagi.
Tutte le strade che portavano all’Urbe (le vie Consolari) erano fiancheggiate da sepolcri. In particolare lungo la vie Appia, Latina e Flaminia si trovavano tombe patrizie allineate su più file fra cui sorgevano le botteghe dei commercianti. L’uso romano di seppellire sul ciglio delle strade sopravviverà in Occidente fino al '700.
A partire del IX secolo tutti i cimiteri situati fuori dalle città, lungo le strade, vennero abbandonati per evitare che le tombe venissero depredate. Da allora si seppellì di nuovo nel cuore stesso della città, racchiusa entro una cinta di mura che, come all’alba della civiltà greca, comprende sia i vivi che i morti.
Lou Arranca e Maurizio Martinelli