Super League, l’ultimo intervento col piede a martello contro il calcio: 12 (o più) squadre che s’attrezzano ad arraffare il grosso del malloppo
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Ne parlano e ne straparlano. Metaforicamente, si sono spesi in passato filosofi come Sartre: “Nel calcio tutto è complicato dalla presenza della squadra avversaria”. Seriosamente, si sono cimentate orde di sociologi. Le loro analisi? Lasciamo perdere per carità. Poeticamente, non s’è sottratto nemmeno uno scrittore “Nobel-iare” come Montale: “Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: quello della sua stessa infanzia”. Banalmente, si inerpicano sulle cime più alte e pericolose del vaniloquio eserciti di esperti ed ex atleti con le scarpe appese al chiodo. È il filò – infinito- da pre, durante e post partita.
Ma i Caressa e gli Zazzaroni dovranno continuare a guardare a Gianni Brera come a un Everest inarrivabile. “Può succedere che una partita venga dilatata a sagra, a poema epico, e che ogni suo episodio si colori come nessuno avrebbe mai pensato assistendovi o addirittura prendendovi parte”. Se questa – (e molto altro) – era la farina di una cultura da fuoriclasse applicata al pallone è giocoforza che gli onesti animatori della snervante “commentiade” televisiva debbano accettare il loro inesorabile destino di panchinari.
Che poi la panchina non è per forza urlo, bestemmia, mani imploranti verso un cielo arbitrale che generalmente non ti fila, scenate, scenette e comparsate. Di tanto in tanto qualche allenatore dribbla il prevedibile o lo scontato. E lascia tutti di stucco. No, non è solo per lo “Strunz” e per il “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” che il Trap è già una storia più intrigante rispetto a quella dei suoi scudetti e delle sue coppe conquistate.
“Il pallone è una bella cosa ma non va dimenticato che è gonfio d’aria”: eccola la chicca delle chicche di trapattoniana memoria. Eccola l’iperbole rara del realismo. Ecco la verità che si vorrebbe finalmente vera e che invece vera non è. E non sarà mai. Il pallone è una sana abitudine se non ci caschi dentro con tutta la testa. Non bisogna mai dimenticare che il calcio odierno è gonfio di soldi a debito, tronfio di poteri e privilegi. Chi scopre solo oggi che il calcio delle multinazionali ha condannato alla retrocessione ogni anacronistica idea romantica sul “gioco più bello del mondo” è un “boccalone”. Crede alle favole in un mondo che schifa ogni accenno al lieto fine.
Sul petto di chi investe sui Ronaldo e sugli altri top player il pelo sullo stomaco è fitto. È una foresta. Alla rete – variabile paradossalmente indipendente nei loro retro-pensieri manageriali – si preferiscono le rate con numeri imprecisati di zeri. Sono le rate degli acquisti e degli ingaggi stellari che tingono di rosso i bilanci. Hanno impiccato il calcio alla corda di un business planetario, fatto di tv a pagamento, di calendari e palinsesti da mezzogiorno a mezzanotte.
Quando i soldi sbucano tra dune e dromedari si mitizzano perfino le pantomime di partita. E così si gioca a mille gradi nel regno medioevale degli amici di Renzi: amici conturbanti solo per chi ammira gli emiri che possono pagare in contanti la prostituzione politica. I padroni del calcio – certo più lupi che Agnelli – hanno preso a pedate il calcio. Se predicano di valori ne hanno in mente solo uno: il valore economico, il gruzzolo, (a volte un gruzzolone), da dividere tra soci. L’ultimo intervento col piede a martello contro il calcio è questa storia della Super Lega tra dodici (o forse più?) super squadre che s’attrezzano ad arraffare il grosso del malloppo.
Sanno giocare solo a gamba tesa le dirigenze furbacchione che mirano al plurimiliardario mercato dei diritti Tv, del merchandising, dell’immagine pubblicitaria e degli sponsor planetari. Rischiano l’espulsione? Pare di sì a giudicare da quanti arbitri hanno subito messo mano al fischietto: Uefa, Fifa, leghe nazionali, governi. È come fischiare un’espulsione quando le squadre sono già negli spogliatoi. È come accorgersi di un fallo da squalifica perenne qualche anno dopo che è stato commesso. Il calcio è da anni un affare che nulla ha a che vedere con l’aneddotica, la letteratura o la poesia del pallone. Tutti se ne sono accorti – compresi i tifosi sempre innamorati, ma un po’ obiettivi – ma nessuno si è strappato le vesti. Non la Fifa, l’Uefa, le leghe, i governi, la politica parolaia e via “ipocritando”.
Nel paleolitico il calcio poteva anche qualche “buona azione”: la piccola squadra che batte la grande in Coppa Campioni, Davide che dribbla Golia. Nel presente le “buone azioni” si sono rarefatte ma non sono sparite. Tuttavia i successi imprevisti e imprevedibili sul modello bergamasco e perfino cipriota, (Atalanta o Apoel), sono diventati una inaccettabile minaccia alla gerarchia danarosa di club dove ogni palleggio costa come il Pil del Malawi.
Si è lasciato fare. Si è lasciato disfare. Di che ci si meraviglia se dodici super-club decidono di andare per proprio conto per provare a pareggiare i conti con le banche mossi più da disperazione che da lungimiranza? Il tema dunque non è decidere dove sta il torto e dove la ragione perché la seconda non ce l’ha proprio nessuno.
Il tema, piuttosto, è quello della noia. Quando Inter e Barcellona, Milan e Liverpool, Juve e Real si incontreranno un giorno sì e uno anche nel campionato dei soli soliti noti la passione finirà col lasciare il posto ad un’abitudine a tasso bassissimo di sorpresa. Solo allora – forse – ci si accorgerà dell’importanza di portoghese meno conosciuto e meno pagato, (quelli del Porto, per esempio), che gioca un brutto scherzo al portoghese che fa miliardi anche quando pubblicizza mutande col pacco in vista.
L’imprevedibile, l’impronosticabile: eccolo il calcio che fa incazzare tifosi e curiosi ma allo stesso tempo li tiene svegli. Se il motto che verrà sarà “oggi a te, domani a me” per una ventina di squadroni “eletti”, meglio il broomball. Meglio la “palla scopa” dove gli ignoti diventano eroi almeno ogni quattro anni olimpici. Nel calcio di bassa Super Lega gli ignoti non avranno mai gloria. Solo che, da che mondo è mondo, sono gli ignoti a fare la storia.