Ripensare la movida perché se l’idea di libertà si concretizza nella libertà di piscio e vomito il problema da affrontare è parecchio serio
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
Ancora lui. Ancora l’inarrivabile. Ancora Proietti. “La chiamano movida ma stanno tutti fermi col bicchiere in mano”: così diceva il “mattattore” in una sua pillola di sociologia che avrebbe probabilmente fatto invidia ad Eco per la genialità della sintesi. Movida dovrebbe voler dire movimento, dinamicità. Se è staticità, abitudine o rito, è non uno ma almeno dieci passi indietro rispetto al suo significato e alla sua storia. Sì, la storia. Di quando in quando si potrebbe bazzicare anche per caso la storia dei fenomeni sociali: quelli con tutti i crismi e anche quelli presunti.
Se si guardasse alla storia, (che per altro non è storia archeologica) si scoprirebbe che la movida nacque in Spagna alla fine di una dittatura per affermare quella libertà artistica e creativa che il Franchismo imprigionava. Se non di peggio.
La movida non si misurava solo in gradi alcolici. L’unità di misura – quella sì davvero libertaria - della pubblica riconquista di strade e piazze fu la fantasia. Fu la cultura: dal basso, di lato, di sopra e di sotto. La movida, quella movida, praticava libertà a buon diritto. Fu la rivincita sull’oscurantismo fascista attraverso la rinascita delle più diverse arti di strada: musica, danza, pittura, letteratura, cinema e molto, molto altro.
Nell’involuzione che della movida ha mantenuto il nome dimenticando completamente il senso il riferimento alla libertà è fuori luogo, fuori tempo, fuori contesto. Di libertà – in relazione alla movida dei giorni o meglio delle notti nostre – si straparla. La si cita a sproposito con opposti e inconciliabili propositi. Un popolo intergenerazionale – altro che soli “ggiovini” - invoca la “libertà di vivere la città di notte”. Ma la notte di chi abita in centro non può avere le ore contate e infinite per un vociare troppo spesso molesto e fuori orario. Anche chi abita il centro invoca libertà.
Che si fa? Si parteggia per l’una o per l’altra esigenza, entrambe legittime, entrambe sacrosante? Si media? E come si media? Si dialoga? E con chi si dialoga? Il confronto tra le parti coinvolte – (chi anima la movida, chi la sazia e la disseta perché così e non in altro modo può campare, chi la vive come un incubo) – è cosa buona, giusta. Ma è probabilmente vana. La movida non ha rappresentanze in grado di imporre decenza di comportamenti a chi non vuole mai staccare la spina (della birra e del suo protagonismo) e crede che alla faccia dello scioglimento dei poli il ghiaccio degli spritz durerà all’infinito. È il permafrost dello stonamento e dei valori marciti.
Il pugno di ferro allora? Le panchine fatte sparire, il divieto di riempire bicchieri per i brindisi d’asporto o le forze dell’ordine che appaiono molto più di prima laddove erano scomparse? Ci si può provare. Si sta provando, ma la sensazione è che la ricerca di un equilibrio tra diritti opposti sia un esercizio tanto nobile quanto improbo. E fuorviante. Tra gli argomenti a difesa o contro la movida ci sono ampie possibilità di condivisione nell’uno e nell’altro campo. Difficile dar torto agli universitari quando dicono che non possono essere considerati risorsa solo quando pagano gli affitti, (anche in nero), e problema quando vogliono divertirsi anche dopo Carosello (che purtroppo non c’è più).
Difficile dare torto a chi è costretto a stare sveglio per parecchie ore oltre Vespa e quando si sveglia da un sonno minimo si ritrova a scansare, sotto casa, i prodotti schifosi di vesciche e stomaci. Basterà qualche cesso chimico così come ha promesso il sindaco? Se l’idea di libertà si allarga alla libertà di piscio e vomito il problema da affrontare è parecchio serio perché riguarda la cultura delle dinamiche collettive, l’esercizio del rispetto per sé stessi e per gli altri, il decoro, il senso civico e tutte le altre cose che ai più possono sembrare materia obsoleta ma che invece segnano la qualità delle convivenze.
Contro chi piscia, magari pure defeca, urla come un ossesso credendo di cantare alla notte deve scattare un cordone sanitario. Ma a formare il cordone sanitario deve essere la maggioranza degli ''altri'' che vogliono vivere la notte come un diritto rapportato al diritto altrui. Sulle “ronde della decenza” si potrebbe perfino derogare a qualche solido principio. La credibilità, la rappresentanza, si guadagna anche con lo scontro dentro il popolo della movida. Uno scontro a fin di bene. Il bene dei tanti rispetto ai pochi che diventa un male se i tanti se la ridono o fanno spallucce rispetto ai pochi deficienti.
Se davvero – come è vero – la movida non è un’onta ma un aspetto importante di una città universitaria che sbandiera orgoglio turistico, è forse giunto il momento di provare ad analizzare nel profondo questo fenomeno. E' l’ora di studiare come si compone per capire quanta periferia approda in città, quali età prevalgono e di conseguenza quali comportamenti o atteggiamenti, quale capacità di spesa, quale è il grado possibile di reciproche responsabilizzazioni, di accettazione di limitazioni o di sfruttamento di eventuali occasioni alternative di aggregazione. È però anche l’ora di inserire la movida in un progetto di respiro per una città creativa e ancora più aperta a sfide culturali capaci di tradursi in sfide di cittadinanza.
Servono più e non meno luoghi di incontro – certo – ma urge anche - e soprattutto - una vera e coraggiosa varietà di offerta, (sia pubblica che privata). Una varietà che proprio dal punto di vista dell’intrattenimento aiuti a selezionare tanti pubblici diversi per sensibilità e modo di fruire gli spazi. Ci stanno anche i parchi “gestiti” dai baristi a rotazione, l’opzione di alcune zone meno centrali ma forse più protette e via sperimentando. E pure un po’ di periferia servita da un servizio di trasporti adeguato. Serve ragionare di movida “uscendo” dalla movida così come la si conosce oggi. “La chiamano movida ma stanno tutti fermi col bicchiere in mano”. Il giorno che non staranno tutti fermi – va bene anche con il bicchiere in mano – sarà un giorno migliore. O, almeno, meno scontato.