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Goldoni è un rap, viva la prosa dell'imprevedibile

Una curiosa concomitanza ha portato le Baruffe "classiche" al Sociale e una Locandiera contaminata di mimo, clown e cartoons a Villazzano. La Mirandolina muta e i tre spasimanti ginnici di Saitta stravincono per coraggio, innovazione e simpatia. L'azzardo di qualità meriterebbe maggior attenzione
DAL BLOG
Di Carmine Ragozzino - 26 novembre 2018

Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino

Due Goldoni in due giorni. Li ho visti entrambi: uno sabato, uno domenica. Uno al teatro di Villazzano: pieno. L’altro al Sociale: pieno. Due Goldoni in due giorni – “La locandiera” e “Baruffe Chiozzotte”: coincidenza e curiosità per l’offerta di prosa di Trento.

 

 Due Goldoni, certo, ma che differenza. Quello del Sociale – stagione grande del Santa Chiara – è un Goldoni che non devia nemmeno per sbaglio dal classico. È quasi didattico “sto” Goldoni qua, proposto dallo Stabile del Veneto. Lo recitano in dialetto di Chioggia, che è sì veneto ma non troppo per via di certe inflessioni che rimandano perfino al ligure.

 

 Il Goldoni celebrato da tredici attori  è opera ricca. Tanti sul palco, tanto da pagare nonostante una scenografia alquanto risparmiosa ma non senza efficacia. Opera divertente, ben interpretata. Ma lavoro che una volta chiuso il sipario, una volta decretati applausi meritati, si dimentica. Il Goldoni che sta nei binari di un prevedibile seppur godibile didascalico, quello firmato da Paolo Valerio che pure è un nome, non lascia segno. Scorre, certo che scorre, ma senza guizzi.

 

 Se mai ci fosse da baruffare, l’argomento del contendere sarà l’emozione. Traducendo: ci serve più una prosa ligia alla tradizione o un azzardo? La risposta è venuta da Villazzano. La risposta è venuta – chiara, forte, sorprendente – da “Esprit de jus de pomme de terre”, ovvero la Mirandolina che Andrea Saitta ha ammutolito la scena per farle parlare con il solo gesticolare del corpo e degli occhi il miglior vocabolario femminile. Anzi, in realtà, femminista.


 “La locandiera” imbastita in versione lunga dal regista che lo scorso anno vinse il premio Fantasio, (otto registi, stesso testo, attori ad estrazione, una figata) con un uno studio che mise ettolitri di acquolina in bocca tanto al pubblico quanto alla giuria giudicante, è una rivisitazione di Goldoni. E’ il contrario del Goldoni da grande prosa. E’ un Goldoni che saltabecca tra i generi e le tecniche senza inciampare: circo, mimo, prosa, cinema e cartone animato. 

 

 Dovessimo paragonare – (ma perché poi dover sempre paragonare?) _ citeremmo quei film che giocano con le epoche. Come quello in cui un medioevale si ritrova nella New York di oggi e bistratta il presente con la semplicità ingenua dell’uomo al passato. Ma “la locandiera” di Saitta è paragonabile solo alla Locandiera di Saitta. E’ imprevedibile, irresistibile, fintamente anarchica poiché ogni scena è frutto di una pignoleria probabilmente maniacale.

 

 Che ne è di Mirandolina, del conte e del marchese, del cavaliere e del servo nel Goldoni da “spirito di patata?”. Né è un piccolo grande miracolo di sincronia e di comunicazione che quattro giovani attori compiono con una naturalezza perfino sconvolgente.  Un lavoro ritmico. Un rap teatrale.

 

 Roberta Lionetti, Dario Battaglia, Ivan Graziano e Norman Quaglierini – i protagonisti – sono nomi da segnarsi in qualche agenda per ricordarsi di non mancarli quando faranno dell’altro, in altri lavori e in altri contesti. Affiatati? E’ dire nulla. La donna tace ma impone la sua presenza come se fosse logorroica. I tre le girano attorno da mutanti. Recitano l’essenziale per rimandare all’intramontabile storia goldoniana.

 

 Ma la loro è una recitazione ginnica, complicata da balzi, cadute, equilibrismi, sdoppiamenti, intrecci. Recitazione ginnica ma senza affanno. Se cantano, gigioneggiando con il tipico libiamo dei classici, resuscitano il quartetto Cetra delle grandi parodie anche se sono in tre. Se mimano, e mimano tutti i quattro, la prosa sé prosa dall’alluce al capello: il che non è né facile né frequente.

 

 Se divertono, e cavolo se divertono, lo fanno trasformandosi in cartoons o in clowns dentro un teatro che si contamina felicemente ad altre arti. Ecco allora, seppur tardiva, la risposta alla domanda formulata all’inizio di questo ammirato deliquio: viva l’azzardo, viva un Goldoni che grazie all’azzardo, all’irrituale e alla sfida di un regista “rasta” e dei suoi quattro rap-attori è una catapulta che lancia un Settecento lungimirante nella modernità. Mirandolina – anche fa muta – è la donna che “governa” gli uomini, gli spasimanti e gli ansimanti.


 Questo era il messaggio allora: rivoluzionario. Questo resta il messaggio oggi: forse ancora più rivoluzionario e utile rispetto all’epoca goldoniana. Ma tra i due Goldoni – quello del Sociale e quello di Villazzano – non c’è gara: il secondo, il Goldoni mignon per allestimento e costo, vince a mani basse. Vince per innovazione, coraggio, impatto, simpatia.

 

 Una vittoria in una gara a distanza, con due pubblici molto diversi. Una vittoria che non depaupera la qualità del Goldoni classico ma che tuttavia propone, anzi ripropone, una riflessione, un dilemma. E cioè interroga sul perché tanti lavori come “Esprit de pommes de terre”, lavori che nascono dentro circuiti teatrali cosiddetti “minori”, non riescono a trovare l’attenzione adeguata e la circuitazione adeguata. Non è solo un peccato. È un delitto che chiama alle proprie pressappochiste e spesso presuntuose responsabilità i promotori che fanno le stagioni “pasturati” quasi sempre le stesse agenzie.

 

 Un tema antico. Irrisolto. Lo spettacolo che a Villazzano ha inaugurato la mini stagione dedicata ai registi che hanno vinto una delle 19 edizioni del Premio Fantasio non sfigurerebbe nel cartellone della grande prosa a Trento e farebbe bingo nelle piazze di provincia. Sempre che ci si voglia finalmente accorgere che le chicche teatrali possono concretizzarsi anche con tre galletti che girano attorno a Mirandolina muovendo il collo come Totò quando fa la gallina.

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