Gay Pride, Ugo Rossi maldestro e presuntuoso, mentre Emanuela Rossini sposta la 'colpa' sugli organizzatori
Giornalista, ha lavorato per Alto Adige, Gazzettino e Trentino
“L’equivoco stravagante” e “L’inganno felice”. Sono due opere tra le tante scritte da Rossini. Da Gioacchino Rossini. Alla neo deputata Rossini – Emanuela Rossini, a targa Patt – calzano entrambi i titoli. Ma se il musicista dominava il pentagramma, la Rossini stecca.
E’ di alcuni giorni fa una sua dichiarazione sulla vicenda Gay Pride, riportata dalla stampa locale. La Rossini deputata interviene sulla triste vicenda per la quale il “suo” presidente – l’Ugo governatore – dovrebbe arRossire. Cosa che non fa. E che non farà.
E’ la storia del patrocinio negato alla sfilata multicolore del Gay Pride di giugno. Ogni “genere” di colore. Per il suo “niet” Rossi ha addotto motivazioni tanto improvvide quanto improvvisate: la sfilata Pride per lui è folclore - omosessuale e lesbico – che non porta beneficio alla crescita della comunità trentina.
Inutile contestare i ragionamenti di un Rossi senza il beneficio del dubbio, sociologo da scranno, ebbro di certezze che il progresso rende inesorabilmente incerte. Le sue sono motivazioni di copertura ad un unico scopo, per altro scoperto e maldestro: Rossi tenta di raccattare simpatie retrograde al suo partito. Un partito batostato alle elezioni nazionali assieme all’intero centrosinistra trentino.
La convenienza elettorale sembra – purtroppo – l’unica cultura di un presidente di giunta provinciale che pur di restare in sella s’attrezza a Lega-re con chiunque abbia la Forza di ricacciare l’Italia un po’ più indietro sul tema dei diritti civili. Eppure Rossi è coerente: pensa da presuntuoso, parla da presuntuoso e agisce da presuntuoso.
La sua è coerenza negativa, coerenza pressappochista, coerenza approssimativa. Ma l’inquietante coerenza di Rossi irrita meno del cerchiobottismo. Ecco, appunto, il cerchiobottismo.
La deputata Rossini, l’eletta del presidente e del Patt s’è ritrovata a Roma su spinta altoatesina dell’Svp. Buon per lei, seppure con un po’ di invidia per chi vince alla lotteria senza nemmeno dover comprare un biglietto.
Ebbene, sulla vicenda Gay Pride la Rossini si dimostra regina dell’equilibrismo. Per anni ha promosso – da consulente del Centro Santa Chiara - un teatro di ricerca, sperimentazione e provocazione. Potrebbe mai scandalizzarsi di fronte agli eccessi del Pride? No. Non si scandalizza. Ma fa di peggio nella foga di spostare la polemica su un fronte “altro” rispetto a quello politico che è invece l’unico fronte vero.
“Il Gay Pride – dice la Rossini - non ha bisogno di istituzionalizzarsi chiedendo il patrocinio della Provincia. Questa è una manifestazione che è nata oltre gli schemi, che ha sempre fatto della libertà di espressione la sua forza. Perché ha bisogno di patrocinio? Entrerebbe in uno schema che non gli appartiene”.
Ecco, a sbagliare non è Rossi quando riduce la sua capacità d’analisi alle piume sul pube o alle bretelle sul busto nudo e muscoloso. A sbagliare – secondo la Rossini - sono gli organizzatori del Gay Pride. Lo fanno quando si propongono come interlocutori delle istituzioni, rifiutandosi di rimanere dentro la “riserva” allegra che sembra piacere tanto alla neo deputata.
E’ furba la teoria della Rossini. Furba, stridente e anche non poco ipocrita. La Rossini magnifica il “Gay Pride” – (libertà, libertà…) purché il “Gay Pride” non crei imbarazzi. Imbarazzi alla società? Macchè, imbarazzi alla Provincia del “suo” presidente. Essere autonomisti, d’altronde, non vuol dire essere intellettualmente autonomi dalle cadute di stile.
Indicare il rischio di “snaturamento” del Pride piuttosto che lo snaturamento del buon senso - operato strumentalmente da Rossi a nome di una provincia che non la pensa “tutta” come lui - è una notevole alzata d’ingegno. Una povera alzata d’ingegno.
Per fortuna il Pride continua a “snaturarsi” trovando adesioni sempre più numerose proprio per la sua capacità di coinvolgere tanto le istituzioni quanto la società civile nella difesa dei diritti “di genere”.
Dello “snaturamento” del Pride sono contente le ambasciate di mezzo mondo (Australia, Canada, Spagna, Gran Bretagna, Germania) che partecipano non da ieri alle sfilate Pride assieme ad un’innumerevole universo di associazioni nazionali e locali nelle trenta e più manifestazioni annuali dell’onda arcobaleno.
Altro che “schema che non appartiene al Pride”. E’ l’esatto contrario: uscendo dallo schema, costruendo reti di confronto e anche di scontro, il Pride ha affermato l’etica (l’etica dei diritti) laddove lo si voleva ridurre ad un fenomeno estetico.
Il patrocinio istituzionale non è un’elemosina, non comporta finanziamenti. E’ però un riconoscimento importante. E in quest’epoca di sdoganamento culturale e politico di ogni tipo di intolleranza il riconoscimento istituzionale del Gay Pride nobilita più chi lo concede che chi lo ottiene.
La tiritera di Rossi è l’aggrapparsi ai distinguo: “Patrociniamo il Pride in tutto tranne che nel folclore della sfilata”. Ma la sfilata è un linguaggio. La provocazione è sempre stata una forma di comunicazione, spesso molto più efficace delle parole. Distinguere tra un “Gay Pride” buono – quello nel chiuso dei convegni – e un “Gay Pride” cattivo (quello dei baci in piazza) è ridicolo espediente.
La tiritera della Rossini è perfino peggiore. Il “Gay Pride” non ha bisogno di lezioni: né di tattica, né di strategia. Ha bisogno di un 'sì' o di un 'no' senza variabili e senza condizioni in una società che non ha certo smesso di discriminare gay, lesbiche e coppie “irregolari”. I 'ni'? Tornando al Rossini Gioacchino sono “L’inganno felice” della politica. Vecchia e nuova.