Il Nebbiolo ritrovato, la sfida della famiglia Vajra con il Claré Jc: un vino rimanda alla storia dimenticata di questa produzione
Cercherò di stuzzicare curiosità e piacevolezze. Lasciando sempre spazio nel bicchiere alla fantasia
Vinitaly alle porte e subito è un tourbillon di proposte, ostentatamente roboanti, al pari della gestualità nel tondeggiare i calici col vino appena versato dalla bottiglia. Impossibile sintetizzare i vini che davvero recuperano memoria e sfidano il futuro. Quelli che non badano all’effimero, ma puntano alla giusta leggiadria.
Il sorso al servizio della vista e una piacevolezza intrinseca che ha nella spontaneità tutta la sua forza. Con un colore assolutamente moderno, nonostante sia legato ad una pratica enologica decisamente d’antan: vale a dire proporre un vino tenue nel suo gentile color rosa nonostante scaturisca da uve pregne di rosso, vitigni austeri, poderosi, solitamente alfieri della maggior concentrazione. In tutti i sensi.
Ecco allora il Clarè Jc, rigorosamente da uve Nebbiolo. E’ la sfida della famiglia Vajra, barolisti sopraffini in quel di Vergne, storici interpreti di una bioviticoltura mai ostentata, con una gamma di vini tra i protagonisti del mercato più autorevole in campo mondiale.
Ma perché Clarè e come mai sull’etichetta il nome ha il rafforzativo Jc? Andiamo per ordine.
Clarè in quanto si distingue dai claret, vini in voga nel Bordeaux già nel Medioevo, vino dal colore tenue destinato al mercato inglese. Claret ingiustamente confuso con clairet.
Due definizioni foneticamente con lo stesso timbro. Identiche forse anche le sfumature rosacee del vino, ma per claret s’intende una sorta di filosofia vinicola, mentre la parola clairet indica il chiaro del vino, una tipologia che potremmo legare al Bardolino Chiaretto o alle Schiave dolomitiche con sgargianti riflessi rosacei, pure per certi Teroldego Kretzer.
Torniamo al Clarè Jc. Aldo Vajra e i suoi figli lo producono legandolo ad una storia. Quella del presidente americano Thomas Jefferson, che nel diario del suo viaggi in Piemonte nel 1797 descrive un Nebbiolo degustato "dolce come il setoso Madeira, astringente al palato come il Bordeaux, ma vivace come uno Champagne". Effervescenza inusuale, probabilmente basata sulle tecniche di cantina allora in voga, ma comunque apprezzata. Lo scrive anche Giovan Battista Croce nel 1606, gioielliere di Casa Savoia e grande esperto di vini, declamati proprio per "leggerezza e lievemente mossi".
Due personaggi da onorare ed ecco che il Clarè ha il rafforzativo J - il onore del presidente Usa - e C, per il cognome Corti. Ma la maiuscola C è pure l’omaggio da Darrell Corti, indomito quanto autorevole selezionatore di vini, origini liguri, massimo conoscitore delle Langhe, importatore americano in quel di Sacramento, in California.
Clarè Jc e il vino scandisce intrecci, rilancia incantevoli sensorialità. Rispettando la vigoria intrinseca del Nebbiolo e nel contempo interpreta l’evoluzione del gusto, le tendenze al bere spensierato, mai banale. Con la semplicità dell’autorevolezza. Sembra una contraddizione. Invece è la sintesi di come il vino riesca a recuperare il passato per farci assaporare il domani.
Chissà se a Vinitaly tanti altri vini potranno interagire con le vicende dei claret. Di sicuro il Clarè Jc è la prova tangibile di gioia. Come sottolineano i Vajra: un vino per chi si sente bambino dentro e prova curiosità per il passato, ma pure per quanti desiderano una maggior spensieratezza nella convivialità del pasto.