Da Francesco Moser a Giorgio Rivetti, Trento Doc e Alta Langa Docg: bollicine a confronto, distanti ma vicine
Cercherò di stuzzicare curiosità e piacevolezze. Lasciando sempre spazio nel bicchiere alla fantasia
Hanno il fascino della verticalità, uno slancio verso le vette della piacevolezza gustativa, del bere leggiadro, tra sentori che evocano la sostenibile leggerezza dell’essere. Sono le bollicine degli spumanti classici elaborati con uve d’alta collina, addirittura raccolte su versanti montani. Uve di montagna che accomunano due importantissime denominazioni: il Trento Doc e l’Alta Langa Docg.
Distinti e distanti per orografia, accomunati da tempi e metodi rispettosi della più rigida - quanto autorevole - pratica spumantistica. Con tanti altri intrecci. A partire dalle cure viticole.
In Trentino verso le Dolomiti, il Piemonte sulle colline in quota che guardano verso un corollario di cime; spaziano dalle Alpi Marittime, le Graie del Monviso, addirittura dai vigneti dell’albese s’intravvedono il Gran Paradiso, Cervino e il Monte Rosa.
Alture - sia per il Trento Doc come nella Doc Alta Langa - a difesa dei vigneti tra i più quotati - per valore e blasone enologico - di tutta Europa. Montagne che non limitano orizzonti, ma stimolano a trasformare speciali vendemmie in vini dal ‘perlagè’ suadente. Ovvero spumanti legati contestualmente alla storia delle rispettive comunità rurali, impegnate da sempre nel trasformare la fatica delle coltivazioni vitivinicole in prodotti davvero d’alto prestigio.
Lo spumante classico - quello che rispetta i canoni stile Champagne - scaturisce dalla lenta rifermentazione del vino in bottiglia. Una sorta di rinascita, per dare al vino briosità. Una tecnica, un metodo che i cantinieri piemontesi applicano da tempo, praticamente quasi nel medesimo sviluppo della ‘champagnistica’ francese. Merito di scambi enologici, di vicinanza geopolitica con la Francia, ma pure dalla necessità di valorizzare uve a suo tempo poco conosciute, nonostante l’importante storicità del Nebbiolo, l’uva regale del Barolo e Barbaresco.
Infatti fu il primo ‘metodo champenoise’ ad essere prodotto in Italia, fin dai primi dell’Ottocento, nelle cosiddette ‘Cattedrali Sotterranee’ oggi riconosciute Patrimonio dell’Umanità Unesco. Iniziative dei conti di Sambuy nel coltivare in Piemonte vitigni francesi - Pinot nero in particolare - destinati alle ‘bollicine’.
Con Carlo Gancia, reduce da studi enologici a Reims - che aprì nel 1865, uno stabilimento a Canelli, stappando di fatto il primo spumante perfettamente in grado di sfidare quelli della Champagne.
Contemporaneamente, dal 1874, la Scuola agraria di San Michele all’Adige - allora regione dell’Impero austroungarico - formò i primi studenti in materie enologiche. Tra questi il trentino Giulio Ferrari, figura monumentale nella storia del metodo classico italiano. Che nel 1902 riuscì a proporre alcune migliaia di spumante subito bramato da lussureggianti mense imperiali, da ‘teste coronate’ e armatori di crociere navali.
A distanza di quasi due secoli, l’opera di questi emblematici pionieri, così diversi e comunque accomunati dal medesimo sogno produttivo, prosegue con sinergiche similitudini. Coinvolgendo nuove cantine, rafforzando brand inimitabili quanto alfieri del buon vino brioso.
In Trentino come in Alta Langa gli spumanti sono legati indiscutibilmente ad una decisa quota. Per questioni ambientali, per i riscontri che solo le uve vendemmiate in vigneti attorno - ancor meglio, oltre - quota 500 metri riescono a dimostrare. Un valore organolettico fondamentale, orgogliosamente tutelato da spumantisti che davvero rispettano le colture montane.
Il Metodo classico piemontese, unico al mondo ad aver posto un limite altimetrico ai vigneti di Pinot Nero e Chardonnay che non deve essere mai sotti i 250 metri. Distinguersi, in tutto. Senza nulla togliere ai metodo classico della rinomata Franciacorta, neppure per le bollicine dell’Oltrepò Pavese e gli emergenti dell’Alto Adige.
Difficile sintetizzare in poche righe le cantine - chiamatele ‘maison’ - prettamente operative in quota e altrettanto elevate per importanza qualitativa.
Ecco allora un simpatico accostamento tra Trentino e il Piemonte spumeggiante, con due cantine che coltivano esclusivamente Chardonnay e Pinot Nero ( i vitigni esclusivi per lo spumante) e in campi a quasi 800 metri d’altitudine.
Tre milioni e 200 mila bottiglie annue per le ‘Alte bollicine piemontesi’, pronte a raddoppiare la produzione entro un lustro. Il TrentoDoc viaggia attorno i 13 milioni di bottiglie, pure in crescita. A tutti i livelli. Sia Trento che Alta Langa raggruppano una settantina di cantine, nei rispettivi Istituti o Consorzio di tutela.
Giorgio Rivetti è uno dei più blasonati vignaioli del Barolo, Barbaresco, pure del Moscato d’Asti. La sua innata passione per le sfide enologiche l’ha portato a piantare uva ‘da spumante’ sul pendio più in alto di Bossolasco, piccolo comune cuneese, sopra i bricchi langaroli che attorniano il fascinoso Castello di Grinzane Cavour.
Vignaiolo quanto intraprendente imprenditore Giorgio Rivetti ha trasformato oltre 40 ettari dei boschi bossolaschesi in un areale vitato in puro stampo dolomitico. Piantando varietà consoni alla spumantistica, vigneti con rese quantitative molto contenute (elabora 5 mila bottiglie per ettaro rigorosamente Alta Langa Docg) ma pregne di carattere. La vinificazione è svolta a Canelli, negli avvolti in pietra della storica Cantina Contratto, acquistata dalla famiglia Rivetti proprio per completare in prima persona ( dal campo alla finale sboccatura del vino) tutto il ciclo della produzione di spumanti classici.
Cantina costruita a metà dell’800, struttura identica al tunnel ferroviario del Sempione, reticolo che ha del magico, dove il vino in bottiglia rimane ‘sui lieviti’ per lunghissimo tempi, anche per oltre 120 mesi.
Stesso impegno e altrettanta dedizione per la cantina d’alta collina realizzata a Gardolo di Trento dal campione del pedale Francesco Moser. Azienda con vigneti in Valle di Cembra, fazzoletti di terra disseminati tra rocce porfiriche delle Dolomiti, campi mediamente attorno i 700 metri. Cure viticole che hanno del maniacale, gestione enologica affidata al figlio Carlo e al cugino Matteo, con il mitico ciclista sempre pronto al confronto, al dialogo e alla tutela del vino che ama la montagna. I loro TrentoDoc sono tra i più ambiti e valorizzati. Francesco Moser conosce bene le sfide, le salite ripide dei vari percorsi ciclistici. Salite che non transigono. Proprio come il doveroso impegno vitivinicolo di queste due esemplari aziende delle ‘bollicine d’alta quota’.