Pietre, fiumi e montagne: la pittura di Giovanni Giacometti assorbe il paesaggio creando connessioni emotive
Il 7 marzo 1868 nasce Giovanni Giacometti, pittore post impressionista di grande qualità. Accanto alla sua viene però istintivo ricordare la figura del figlio Alberto: non è giusto, ma è una connessione spontanea o, per meglio dire, una sorta di giuntura emotiva impossibile da evitare
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Non è giusto, specie nel giorno in cui lo si ricorda per il compleanno (Borgonovo di Stampa, 7 marzo 1868), viene però istintivo avvicinarsi a Giovanni Giacometti tenendo fissa nella mente, accanto alla sua, la figura del figlio Alberto: non è giusto, ma è una connessione spontanea o, per meglio dire, una sorta di giuntura emotiva impossibile da evitare.
Eppure Giovanni Giacometti, fu un pittore post impressionista di grande qualità: amico sin dagli esordi di Cuno Amiet, assieme al quale elaborò una pittura che, pur mantenendo solidi legami con la realtà, strada facendo si farà meno descrittiva, per riportare fedelmente sensazioni luminose e cromatiche legate ai luoghi in cui essa, nelle tele, prendeva forma. Così facendo, inoltre, peraltro senza mai voltargli le spalle, riuscì ad alleggerire la presenza carismatica e travolgente di Giovanni Segantini, col quale divenne amico, dopo averlo incontrato nel 1894.
Val Bregaglia, Maloja, le non molte case di Borgonovo, la vicina Stampa, siamo nel cantone dei Grigioni, in Svizzera. Qui, dopo aver viaggiato e visto per qualche anno ciò che altrove si andava artisticamente elaborando (Parigi, Monaco, un viaggio in Italia), Giovanni Giacometti dipinse per l’intera sua vita. Infatti, a più riprese, nei suoi dipinti entreranno solo le persone a lui care, gli oggetti familiari, la sua terra: l’antico ponte non lontano da casa, il fiume Maira, il monte Piz Duan, intimorente e protettivo, oscurante e riflettente, alto oltre tremila metri.
Il figlio Alberto, nato nel 1901, se ne andrà a Parigi nel 21 e tornerà in famiglia nei mesi estivi. Prima di partire, dal padre apprese cose importanti, anche se apparentemente lontane nel carattere espressivo: “Dobbiamo dare valore a ciò che Alberto imparò da suo padre” (Rehinold Hold). Chissà quante volte l’avrà visto entrare ed uscire da casa per andare nella stanza in cui dipingeva, un ex fienile ristrutturato con grande entusiasmo nel 1906: “Avrò una bella stanza soleggiata”. Ricorderà Bruno, il fratello più giovane di Alberto, architetto: “Lo studio di mio padre era piuttosto grande. Nel pomeriggio mia madre si sedeva in un angolo e si dedicava al cucito mentre mio padre dipingeva”.
Meno soleggiato, come sappiamo, lo studio che Alberto aveva a Parigi, mantenendolo anche negli anni in cui la sua fama crebbe, quasi per non incontrare atmosfere diverse da quelle che ne avevano formato la personalità e la ricerca espressiva.
Entrambi, dunque, in situazioni e contesti diametralmente opposti, rimangono fedeli alla propria sostanza interiore. D’altronde, ogni scultura di Alberto pare contenere in sé parte delle prove precedenti e di quelle successive, trasmettendo, senza interruzioni, la tensione massima dell’artista. Non mollerà mai la presa, Alberto, persino nell’ultimissimo periodo, quando nel suo volto d’argilla compariranno le ombre della malattia. Egli rimarrà sempre in ciò che andava creando, e così sarà per suo padre. Ritrarre la propria interiorità, sarà il loro primo pensiero. Per Alberto questo gli permetterà di sviluppare, in forma crescente e tormentata, una serie di interrogativi di natura esistenziale. Non a caso, verso la fine degli anni Trenta, Jean-Paul Sartre gli diviene amico, ne ammira l’opera, posa per un suo ritratto. Nel 1948, presentando la mostra alla galleria Pierre Matisse di New York - mostra che segnerà la fine di un lungo silenzio espositivo durato tredici anni - scriverà: “Osservate come i molteplici tratti che egli traccia sono interni alla forma che descrive (….) tutte queste linee sono centripete: mirano a rinserrare, costringono l’occhio a seguirle e lo riconducono sempre al centro della figura”.
Nel 1933, Giovanni Giacometti muore. Alberto pensa per lui di impreziosire la tomba, ponendo a chiusura una grande pietra raccolta dall’amato, e più volte rappresentato fiume Maira, una pietra smussata negli angoli dalla corrente e nella quale lui inciderà, in forma stilizzata, una colomba in volo. D’altronde, le pietre del fiume e i massi enormi, rotolati sui fianchi rocciosi del Piz Duan, li uniranno ulteriormente. Proprio come quella grande roccia, vista per la prima volta proprio col padre Giovanni e subito divenuta meta di giochi, ma, soprattutto, un rifugio prezioso e segreto, in cui elaborare i suoi primi sogni: “Era un monolite di colore dorato che si apriva su una grotta sul fondo; tutta la parte inferiore era vuota, l’acqua l’aveva lavata. Subito l’ho considerato un amico, un essere ben disposto nei ostri confronti, che ci chiamava e ci sorrideva come una persona che un tempo si conosceva e si amava, e che si è sorpresi e felici di ritrovare”. In un altro momento affermerà: “Io ero al colmo della gioia quando potevo accoccolarmi nella piccola caverna che si trovava sul fondo; potevo entrarvi a fatica: ogni mio desiderio era esaudito”.
Una di queste pietre, dunque, è ora nel piccolo cimitero di Borgonovo, posto nel retro della chiesa di San Giorgio, vicino alla tomba di Alberto, sopra alla quale compare invece una semplice iscrizione in bronzo, pensata per lui da Diego, il terzo fratello (quattro, con la sorella Ottilia), anch’egli scultore. Per entrambi, legati dall'arte, un rifugio eterno.